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“Io vorrei che tutti cominciassimo a sognare e progettare un mondo diverso. Un mondo più giusto. Un mondo di uomini e donne più felici e più fedeli a se stessi.

Ecco da dove cominciare: dobbiamo cambiare quello che insegniamo alle nostre figlie. Dobbiamo cambiare anche quello che insegniamo ai nostri figli”.

Cit. Chimamanda Ngozi Adichie

Quando ero piccola mi piaceva giocare sempre a nascondino. Non ho una grande famiglia e così quando mi capitava di poter stare in gruppo non mi tiravo mai indietro.

Ricordo che avevo una gran sete di vittoria. Volevo vincere, essere acclamata ma più di tutto volevo giocare e volevo che la mia squadra portasse a casa la partita.

Da pochi giorni siamo entrati nella cosiddetta “Fase 2”. Mentre cerchiamo di capire cosa significhi e in quali modi stia cambiando la nostra quotidianità dobbiamo prendere atto che il cambiamento è già avvenuto.

Lo scoppio di questa epidemia, per come la vedo io, ci ha insegnato una lezione importante: se il nostro corpo (e per estensione il nostro pianeta) non sta bene tutto si ferma. Alla faccia di tutti i discorsi politici, economici e via dicendo.

Ci siamo dovuti fermare e abbiamo dovuto aspettare. Non sapevamo e non lo sappiamo ancora cosa accadrà.

Presto saremo in un mondo nuovo e dovremo ricominciare. Per questa ragione ho pensato che fosse importante parlare di un libro che per me è stato un grande spazio di immaginazione, libertà e inclusione. Questo saggio si intitola: “Dovremmo essere tutti femministi” di Chimamanda Ngozi Adichie ed è tratto da un suo discorso tenuto al TEDx nel 2012.

Quando si sente parlare di femminismo capita spesso di vedere occhi al cielo e altre espressioni di intollerabilità. “Ok le donne vorrebbero di più, ma non hanno già abbastanza?”, “Anche gli uomini se la passano male” e la più sottile (ma anche la più nociva): “Io non ragiono così, per me il genere non conta proprio”.

Ripenso (senza dover fare un grande sforzo di immaginazione) allo spazientimento che leggo sui volti di chi si ritrova, pur non volendo, a parlare di femminismo e non faccio fatica a credere che sia questa la reazione più comune.

In televisione le femministe sono rappresentate come megere urlanti. Si dice di loro, come ricorda la stessa Chimamanda, che non amino i tacchi, il deodorante e che vogliano a tutti i costi sottomettere l’uomo. Sì, magari ci sarà anche qualche donna così (e qualche femminista perfino) ma ciò che mi colpisce è che di quello che dicono non ci importa. Rientrano nelle stereotipo delle pazze e così smettiamo di ascoltare nonostante rivendichino qualcosa che è importante per tutti noi.

Sì, tutti noi. Non a caso il libro che ho voluto presentare si chiama: “Dovremmo essere tutti femministi”. Perché l’errore più comune è pensare che questa sia una battaglia solo delle donne.

“Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere”.

Siamo schiavi di idee culturali che ci dicono chi dovrebbe portare il pane a casa e di come si dovrebbe comportare la donna e come l’uomo. Nessuna divergenza è ammessa.

Ricordate come ho iniziato questa “lettera”? Ho detto che da piccola mi piaceva giocare a nascondino perché la battaglia combattuta dal femminismo è un po’ come quel gioco: libera tutti e per quanto ci piacerebbe essere noi a segnare la vittoria dovremmo imparare a fare gioco di squadra e a tifare perché qualcuno di noi faccia “tana libera tutti” e porti a casa la partita.

Invece accade spesso che si mini con critiche o con frasi sessiste l’impresa compiuta da quella persona sperando che traballi e che cada. Ci diciamo che le cose stanno così, che non sta a noi cambiarle ma penso che questo periodo più che mai ci abbia fatto capire che il modo in cui stavamo vivendo andava rimesso in discussione e che forse, a un esame simile, vanno poste anche le nostre idee.

“Dovremmo essere tutti femministi” è un ottimo modo per iniziare a farlo.

“I maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico, ma la socializzazione accentua le differenze. E poi avvia un processo che si autorafforza. Prendiamo l’esempio della cucina. Oggi è più probabile che siano le donne a sbrigare le faccende di casa: cucinare e pulire. Ma qual è il motivo? È perché le donne nascono con il gene della cucina o perché anni di socializzazione le hanno portate a credere che cucinare spetti a loro? Stavo per rispondere che forse le donne nascono davvero con il gene della cucina, poi mi sono ricordata che quasi tutti i cuochi famosi del mondo ー quelli che ricevono l’estroso titolo di chef ー sono uomini.

Ricordo quando guardavo mia nonna, una donna brillante, e mi chiedevo cosa sarebbe diventata se da giovane avesse avuto le stesse opportunità di un uomo. Oggi una donna ha più opportunità di quante ne avesse mia nonna ai suoi tempi, e questo perché sono cambiate le leggi e le politiche, che sono molto importanti.

Ma a contare ancora di più sono il nostro atteggiamento, la nostra mentalità.

E se, educando i nostri figli, ci concentrassimo sulle capacità invece che sul genere? Sugli interessi invece che sul genere?”.

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