Pietro Castellitto aspetta prima di rispondere alle domande, sul palco del CineVillage Talenti. Ascolta, prende tempo, pesa le parole. Basterebbe questo per descrivere l’attore e regista, anzi “prima regista e poi attore”, romano, classe 1991. Non lo fa per ansia da palcoscenico, visto che sta presentando un film, “I Predatori”, con il quale ha vinto il David di Donatello per il miglior regista esordiente e il Premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura al Festival del cinema di Venezia. Non lo fa neanche per atteggiarsi. Lo fa perché serve. A ogni domanda infatti risponde quello che pensa veramente, senza frasi fatte, periodi da zero a zero. Dà l’impressione di provare a catturare qualcosa tra le mille idee e immagini che gli passano in testa.
Per molti è “il figlio di Sergio”, dimenticandosi Margaret Mazzantini. Per altri è “quello che fa Totti”, nella serie Sky “Speravo de morì prima”, dimenticandosi di “Venuto al mondo”, “La bellezza del somaro”, “E’ nata una star?” e “Non ti muovere”. Per altri ancora, forse più giustamente, è “il personaggio cinematografico dell’anno”, come lo ha definito la rivista Esquire.
“La questione del “figlio di” ’è un problema che hanno sempre avuto gli altri, poi l’hanno fatto venire a me – ha raccontato Castellitto in una recente intervista al Corriere – un senso di oppressione per cui non sono visto come Pietro qualunque cosa faccia. Questo mi ha spinto a bruciare le tappe, ad avere una voce mia, che dipende anche dalla genetica, dall’educazione, dai genitori e da una percentuale di imprevedibilità”.
Il film che Castellitto ha portato sotto le stelle e in mezzo al verde del Parco Talenti, “I Predatori”, è una pellicola che fa ridere tanto e, alla fine, non fa ridere per niente. È la storia di due famiglie: i Pavone da un lato, borghesi, intellettuali, lui medico, lei regista, e i Vismara dall’altra, proletari, fascisti, lei addetta alle pulizie in ospedale, lui proprietario di un negozio d’armi. Le parabole di questi due nuclei, così diversi e invece così simili, sono uniti dalle figure di nonna Ines Vismara e da Federico Pavone, universitario appassionato di Nietzsche. Proprio come il regista, laureato in filosofia: “A 18 anni ho fatto un viaggio sui luoghi nietzschiani che si è concluso a Röcken, in Germania, dove c’è la sua tomba – ha raccontato dal palco del CineVillage – Era vuoto, non c’era nessuno. Ho pensato che avrei tranquillamente potuto trafugare il corpo e portarmelo a Roma. Questa idea mi è rimasta e si è sviluppata nel tempo, poi intorno gli ho creato una gabbia per raccontare quello che volevo. Mi piaceva l’idea di questo ragazzo con una passione enorme, scollata dal tempo”.
Si parte da questo spunto autobiografico per mettere su un film dove, alla fine, la trama quasi non serve: “E’ sopravvalutata, non dovrebbe esistere, nel senso che per lo spettatore deve essere invisibile”. E infatti a pesare di più sono l’umanità dei personaggi, il loro sentirsi smarriti, il senso di frustrazione, di infelicità nascosta pronta ad esplodere da un momento all’altro. Un film scritto a 22 anni, ripreso in mano 7 anni dopo, dopo quello che Castellitto racconta come “il fallimento della carriera da attore”. Un film che ha il pregio di raccontare un punto di vista nuovo, senza schemi, senza preconcetti e cliché, “ma soprattutto senza rimpianti” come dice l’autore.
Intanto al CineVillage di Parco Talenti le proiezioni e le presentazioni di libri, nell’ambito della rassegna “Cineasti di parole”, continuano. Sabato 19 giugno sarà la volta di Matteo Garrone, che presenterà il suo ultimo “Pinocchio”. Poi sul palco ci sarà Federico Zampaglione, con “Morrison”, il 20 giugno, seguito il giorno successivo da “Volevo nascondermi”. E poi ancora “Joker”, “Mi chiamo Francesco Totti”, “La Dea Fortuna” e tutte le partite dell’Italia, con il commento della redazione de l’Ultimo Uomo. E questo è solo il programma di giugno. In un’estate che promette di essere lunga e finalmente tutta da vivere. Da vivere così: sotto le stelle di Roma, all’aperto e davanti a un maxischermo.