di Italo Arcuri
Questa è un’Itaca che tratta di una storia di salvezza. Una di quelle storie che già sentirla raccontare, porta il cuore a battere all’impazzata, per quanto potentemente vera.
Parla ancora di guerra, questa Itaca. E parla di guerra abbattuta con le armi dell’amore. Che, quando è determinato, da solo, può superare qualunque ostacolo. Anche il più impervio, il più maledettamente complicato, il più inimmaginabile.
Parla di una madre e del suo bambino di 11 anni. Parla di una fuga e di un’accoglienza. Parla di un coraggio smisurato e di una salvezza prima imposta, poi cercata e alla fine ottenuta. Con tanto tormento.
Ha inizio, a Zaporizhzhya, nella parte di Ucraina più maltrattata di questi giorni, quella che ospita la centrale nucleare la cui sorte tiene con il fiato sospeso il mondo intero, e si conclude a Bratislava, nella Slovacchia che, come tanti altri Stati, in queste giornate di conflitto, sa dare alloggio ai profughi e agli sfollati ucraini.
Yulia, vedova, con diversi figli e una mamma gravemente malata che necessita di cure continue e incessanti, impossibilitata perciò ad andar via dall’Ucraina – il suo allontanarsi significherebbe morte certa per sua madre – decide di lasciar partire da solo il figlio più grande. 
Per lui escogita un piano essenziale quanto semplice. Gli mette uno zaino sulle spalle, inserendovi tutto il pensabile umano che una mamma può mettere dentro a uno zaino del figlio e, in stazione, lo carica – fisicamente, in senso letterale – strattonando di gomito e facendosi largo di corpo tra la folla, sul primo treno utile pieno di persone in fuga. Un treno per Bratislava. Che da Zaporizhzhya dista qualcosa come mille chilometri.
Lo costringe ad andar via, ad allontanarsi, da quel coacervo di macerie, i cui cocci sono solo segni di supplizio. Non prima però, e soprattutto, di avergli scritto, a penna, con inchiostro deciso, sul dorso della mano sinistra un numero di telefono. Un numero cui far chiamare, una volta giunto a destinazione, dagli uomini e dalle donne che a Bratislava prestano ristoro a chi fugge dall’Ucraina per informare un suo familiare che lì vive da anni con la famiglia. Un parente che, appena saputo del suo arrivo in stazione, è corso a prenderlo e a metterlo in salvo. Finalmente in pace.
Yulia, così informano i colleghi giornalisti inviati sul fronte di guerra, quando ha saputo che suo figlio ce l’aveva fatta a salvarsi è scoppiata a piangere e a ringraziare mille volte Iddio. Per aver vegliato sulla sorte del suo piccolo grande uomo. Ha pianto lacrime di gioia per quel figlio ‘trasferito’ per amore, allontanato dalla sua casa non più sicura per nessuno e mandato là dove si respira aria di pace.
Yulia, quel giorno, ha anche lanciato un appello al mondo: “Aiutate i bambini ucraini, dategli un porto sicuro” ha invocato. Un porto sicuro… dove non si parli la lingua della guerra.
Come questa Itaca, in viaggio proprio sul filo della guerra, sconfitta per almeno un giorno da questa donna, capace di scrivere, con inchiostro indelebile, una pagina di vita sulla mano del figlio. A presente e futura memoria.
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