Il complesso abbaziale di Sant’Andrea in Flumine, presenza insediativa più che millenaria, è radicato nel tessuto territoriale di quella parte del Lazio dominata dal fiume Tevere, dal Monte Soratte e dalla via Tiberina. Un interessante, lungo e laborioso restauro effettuato tra il 1997 e il 2006, dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali del Lazio, se da un lato ha riportato al suo antico splendore il limitrofo palazzo abbaziale cinquecentesco, dall’altro non ha permesso, però, di rinvenire le antiche strutture medievali, ovvero quegli ambienti monastici che appartenevano, secondo il Chronicon di Benedetto del Soratte, ad un primo cenobio qui fondato, nell’VIII secolo, da Carlomanno.

Costui, divenendo monaco dopo aver abbandonato la vita politica, dal 747 si era ritirato sul Monte Soratte, ma vista la difficoltà di accesso al crinale dell’antico monte Sacro ad Apollo, scese a valle trovando “un antico ‘castello’ d’acqua ancora in attività”, e una chiesa dedicata a Sant’Andrea apostolo a impianto triabsidato. Quest’ultimo, innalzato tra il tardo V e gli inizi del VI secolo dalla patrizia Galla, insieme all’antico castello diventavano, agli occhi di Carlomanno, il luogo adatto per lo svolgimento di una vita contemplativa da parte di una comunità di religiosi.

Scavi archeologici effettuati negli anni Novanta, ad ovest dell’edificio di culto, fecero riemergere murature databili all’età tardo repubblicana (tra il II e il I secolo a.C.), che dovevano appartenere ad una villa residenziale molto ampia (ca 6500 mq) articolata su una terrazza che si affacciava verso il Tevere e affiancata da una tenuta agricola collegata ad un guado noto come Portovecchio. Per Carlomanno questo era un sito strategico e l’antico insediamento permetteva il riuso di materiale antico. Di questa fase carolingia rimangono solo labili tracce, ipotizzando che l’arrivo dei Saraceni, nel tardo IX secolo, abbia condotto alla devastazione dell’antico manufatto. Unici resti altomedievali sono blocchi di tufo bruno riutilizzati nella cinta muraria del tempo di Alberico, quel princeps Romanorum e cultor monasteriorum come amava definirlo Benedetto del Soratte.

Carlomanno dotò il cenobio di un nuovo edificio cultuale dedicato alla Vergine e fortificò il complesso con un sistema difensivo caratterizzato da tre torri, di cui ne rimangono solo due a pianta centrale, delle quali una inclusa nelle successive strutture conventuali, mentre l’altra ancora svetta alle spalle dell’abside. Quest’ultima, aveva sicuramente in origine uno scopo prettamente difensivo, come dimostra la presenza di una caditoia e di snelle feritoie.

Tra il XII e l’inizio del XIII secolo si decise di ampliare la basilica triabsidata in mattoni, facendola precedere da un portico, e inserendo nella muratura scodelle in ceramica verde, secondo un gusto per gli inserti cromatici proprio dell’architettura romanica di area romana.

Le pareti della navata centrale venivano alleggerite da monofore centinate in laterizi, mentre modiglioni marmorei e una cornice a denti di sega coronava i fianchi della navata.

Si accedeva, in origine, all’abbazia di Sant’Andrea in Flumine da un ingresso in facciata, obliterato dalle strutture conventuali successive. Entrando ciò che colpisce è la struttura definita jubè, posta al centro della navata centrale, simile ad un portichetto sormontato da una galleria percorribile, coperto da tre colte a crociera. Al fondo della tribuna, prima del restauro del 1958, erano visibili due altari in muratura, decorati da elementi cosmateschi, poi smontati e riutilizzati nel pavimento della navata centrale.

Il jubè fu realizzato dopo le pitture che ricoprono parte della navata centrale e di cui oggi si conservano sono due figure maschili a torso nudo e parte della vela di una imbarcazione. Sul fianco orientale sono ancora visibili tre figure aureolate, datate al secolo XII, realizzate all’interno di un vasto programma di rinnovamento dell’edificio che prevedeva una recinzione presbiteriale, una schola cantorum, un ciborio e probabilmente due amboni.

La navata centrale è scandita: da un pavimento cosmatesco che prosegue sotto il jubè e oltre la schola cantorum, eseguito secondo il ben noto motivo a quincunx; dalla stessa schola cantorum che reca l’iscrizione votiva dei donatori, Rustico e Maria, e dal ciborio, esempio di un modello elaborato dai marmorari romani tra XII e XIII secolo, con la firma dei lapicidi “NICOLAUS CUM SUIS FILIIS, IOANNES ET GUITTONE/FECERUNT HOC OPUS”.

Alla stessa campagna di lavori intervenuti sull’Abbazia di Sant’Andrea in Flumine possono essere ascritti anche l’altare con la sua struttura a cassa e la fenestella confessionis, mentre al pennello dei Torresani, bottega di pittori veronesi, risale la realizzazione dell’affresco della conca absidale, con la Resurrezione di Cristo, e la Crocefissione tra la Vergine e San Giovanni sull’arcone.

Gli affreschi in oggetto furono realizzati tra il quarto e il quinto decennio del Cinquecento quando l’abbazia era ancora sotto l’egida dell’abbazia di San Paolo Fuori le mura, come mostra l’effige del monastero su uno degli sfondi paesaggistici.

Nel 1543 il potente cardinale Alessandro Farnese unisce le terre di Sant’Oreste e Ponzano all’Abbadia romana delle Tre Fontane, mediante la permuta con l’abbazia di Fontevivo ratificata dal papa con il motu proprio del 13 novembre del 1551. Il motu proprio stabiliva altresì le modalità di permuta proprio tra il monastero di San Paolo sulla via Ostiense e il monastero delle Tre Fontane: il monastero di San Paolo cedeva alle Tre Fontane il monastero di Sant’Andrea in Flumine sul Monte Soratte, oltre alle tenute di Ponzano, Sant’Oreste e Ramiano; il monastero delle Tre Fontane cedeva, in cambio, il castello di Fontevivo nel parmense. Queste terre, ormai appodiate all’abbazia nullius diocesi delle Tre Fontane, entravano in tal modo a far parte della cosiddetta sezione romana dell’abbazia romana.

Articolo a cura di Nadia Bagnarini

 

 

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