“La tomba è un monumento posto al confine tra due mondi” scriveva Jaques-Henry Bernardin Saint-Pierre, autore del romanzo “Paul e Virginie”, influenzato dalle concezioni sulla natura di Jean Jacques Rousseau. Quando capita – e la cosa accade molto più spesso di quanto si pensi – di leggere notizie di tombe macchiate, offese o violate la prima reazione che si ha è quella dello sconcerto. Che è sbalordimento prima e turbamento poi.

La notizia della profanazione della tomba di Alfredino Rampi al Cimitero del Verano di Roma – tomba su cui qualcuno ha disegnato undici svastiche – oltre allo sconcerto, allo sbalordimento e al turbamento ha provocato anche una vera indignazione civile.

Per quelli della mia generazione – “fratelli” di Alfredino per trasporto di contemporaneità – che abbiamo sofferto angoscia e dispiacere in diretta televisiva per giorni interi nel giugno del 1981, la notizia della profanazione è stata tale da riaprire una ferita ancora sanguinante.

Dal 1981 in poi, io, Alfredino lo ricordo spesso. Lo menziono in ogni dove e ascolto o leggo tutto ciò che viene detto e scritto su quei tragici giorni di giugno di quarantuno anni fa. Sono stato anche a Vermicino più volte in questi anni, a guardare il maledetto pozzo artesiano in cui morì e in cui il mondo – tutto il mondo – mi pareva allora essersi infilato senza più farne ritorno.

Se ci penso, ancora oggi, provo un profondo senso di strazio. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che quella tragica esperienza, io, insieme ad altre trenta milioni di persone, l’abbiamo vissuta proprio come se fossimo stati lì sul posto, a penare per la sorte di Alfredino e ad incitare i soccorritori durante le operazioni di soccorso per poi piangere, quando si è capito che per salvare Alfredino non c’era più nulla da fare.

Ore e ore di ansia (18 per la precisione), intervallate da momenti di speranza e di tormento. Ho ancora impresso il volto di mamma Franca Bizzarri e di papà Ferdinando Rampi, madre e padre mediatici di tutti quanti noi bambini. Immagini terribili. Ho ancora il ricordo della disperazione dei vigili del fuoco, della voce rotta dall’emozione dei giornalisti, del pianto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, della disperazione degli speleologi, della rabbia dei volontari, della delusione dei nani che provavano ad infilarsi in quel maledetto “occhio nero” e della sofferenza della tanta gente comune accorsa sul posto per stare vicino ad Alfredino.

 

La tragedia di Vermicino fa parte della storia d’Italia: rappresenta il primo fatto di cronaca seguito istante dopo istante da un intero Paese.

In un articolo apparso su “Epoca” il 27 giugno 1981, dal titolo “Alfredo il nostro rimorso”, Leonardo Sciascia, ricordando i giorni di Vermicino, scrisse: “E’ stata una notte come quella del primo sbarco sulla luna: il trionfo della tecnologia allora; la sua tragica sconfitta ora, davanti al pozzo di Vermicino. Si può andare sulla luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Ne veniva un senso di angosciosa impotenza, di disperazione”.

Rinnovo ciò che ho scritto a tal proposito otto anni fa prendendo a prestito il grande Sciascia: si faccia in modo che la Memoria di Alfredino Rampi sia tramandata e diventi Storia, per evitare di far scivolare menti ignoranti o fragili nel pozzo dell’abbandono. Perché quella tomba profanata non venga relegata ad atto vandalico senza arte né parte. Non si può. Per ciò che è stato. Per il dolore della famiglia Rampi e per la coscienza civile di un intero Paese.

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