“Scusa Ameri, sono Ciotti“. Il ritmo veloce, squillante e scandito del primo. La voce roca, inconfondibile, quasi grattugiata del secondo. La storia della radio sportiva italiana in quattro parole. Enrico Ameri e Sandro Ciotti, entrambi nati negli anni Venti ed entrati in Rai negli anni 50. Oltre mezzo secolo fa. Nomi che ormai appartengono alla nostalgia, all’amarcord.
Ameri non iniziò subito con il calcio, ma passò per la cronaca, il ciclismo e addirittura attraverso un periodo da inviato in Indocina. Fu qui che, per molti, imparò a parlare con la stessa velocità del pensiero, senza troppa enfasi, senza troppi ghirigori artistici. Si allenava da bambino, parlando nelle pentole da cucina, così che la voce riuscisse a rimbombare come voleva l’effetto radio. La voce di Ciotti invece, suo grande amico prima che collega, era stata forgiata dal fumo. Chesterfield o Camel, l’importante che fosse senza filtro. “Sai perché la prima sigaretta del mattino è la più buona? Perché è la più distante dall’ ultima“. A lui piaceva dire che quel timbro roco, increspato, ombroso, gli era venuto dopo una radiocronaca di oltre dodici ore alle Olimpiadi di Messico. Quel tono fu la sua cifra stilistica, ha scritto Gianni Mura, “il suo modo discreto di entrare nelle case, di raccontare lo sport e non solo“.
Raccontare, ecco, questo era il punto. La radiocronaca come narrazione, la partita come storia, come mito più che come semplice evento. Ciotti, che per padrino di battesimo aveva un certo Trilussa, coniò alcune espressioni rimaste nel vocabolario sportivo: il mediano di sostegno, la mezzala di raccordo. Oltre al calcio, seguì 40 Festival di Sanremo. Per questo prima di un Bari-Roma del 1985 poteva descrivere la giornata “calda e languida come gli occhi di Ornella Muti” oppure una mattinata di Napoli “splendida, manca solo Caruso che canti O’ sole mio“.
Della partita non veniva tralasciato niente, in un racconto fluido, uno sguardo ampio, senza infografiche interattive, telecamere speciali e proiezioni ortogonali. Poi furono gli anni di Bruno Pizzul, di quel suo “Li-za-ra-zu” sillabato nelle sfide epiche contro la Francia, di quel “Tutto molto bello” a tinte azzurre.
Generazioni di voci che hanno portato il calcio fino al 2000, fino alla tecnologia. E se Niccolò Carosio, primo telecronista italiano della storia, dovette tradurre in italiano tutte le parole inglesi che si riferivano al Football, oggi è un affollarsi di playmakers e volèe, di garra charrua e falsi nueve, di out e clean sheet. Tutto il calcio minuto per minuto ha quasi sessanta anni, ma è una “trasmissione ancora giovane, giovane e bella” ha detto Riccardo Cucchi alla sua ultima radiocronaca “e durerà al lungo, almeno fino a quando esisterà la passione, nostra e vostra“. Dopo sessanta anni, infatti, la tromba di Herb Alpert che apre Taste of Honey, la storica sigla dell’altrettanto storico programma, continua a suonare. Lo fa tutte le domeniche. E non c’è calcio spezzatino, Dazn o Var che tengano.