Ho questa insana abitudine leggere i commenti sotto i post dei social, ed erano giorni che leggevo opinioni sulla questione catcalling. Alcuni di questi commenti sembravano al limite del delirio, e mi sono chiesta: “È possibile che sia così difficile? Cosa serve a certe persone, il disegnino?”. Così ho pensato: “Sì, forse gli serve il disegnino. Allora lo faccio io””.

È con questo spirito che Martina Piccini si è messa all’opera. L’obiettivo? Spiegare cos’è il catcalling. Come? Con un fumetto. Classe 1993, cresciuta a Faleria, Martina oggi vive a Roma, dove lavora come web designer anche se la mamma, per semplificare, dice che è “laureata in internet”. Ad aprile, mentre in rete impazzava la polemica catcalling, ha deciso di pubblicare sui social un mini fumetto di sei tavole, “Breve guida illustrata a ciò che è lecito e a ciò che non lo è per niente”. Nel giro di poche ore, i disegni sono diventati virali, suscitando anche polemiche e critiche, ma soprattutto mantenendo i riflettori accesi sulla questione.

Proprio per questo abbiamo deciso di farci una chiacchierata. Di catcalling e molestie ma non solo: anche di fumetti, errori, province e lavori che nessuna mamma capirebbe.

 

Martina proviamo a partire dall’inizio. Il catcalling è “solo un complimento” o è una molestia?

 La molestia è ciò che arreca disagio, ed è chiaro che il concetto di disagio è molto personale e relativo al contesto in cui è inserita un’azione. Esistono azioni che sono “brutte” e basta, ma ci sono altre azioni che invece prendono un significato in base a chi le mette in atto, quando, come, perché. Di base basterebbe imparare a leggere il contesto, le reazioni delle persone che si hanno davanti e ad avere buonsenso e gentilezza. Porsi, a monte, la domanda “Questa persona si sentirà importunata?”. Per quanto riguarda il catcalling, no, non è solo un complimento. È una molestia. In base alla sensibilità del singolo sarà più o meno grave, ma rimane una molestia.

Avvicinarsi con educazione ad una persona seduta ad un tavolino di un locale e dirle: “Scusami, posso disturbarti? Volevo solo dirti che questo cappello è veramente bello e ti sta benissimo!” è solo un complimento. Senza insistere, senza alludere ad altro.  Urlare ad una persona in mezzo alla strada, facendo allusioni sessuali, fischiando, facendo versi, imponendo la propria “opinione” se così si può definire, è trattare quella persona come un animale.

Perché sono soprattutto le donne a essere vittima di catcalling?

Perché “è sempre stato così”. Perché un uomo ha tendenzialmente meno paura delle conseguenze, rispetto a una donna, che invece potrebbe essere comunque spaventata dalla reazione di un uomo. Perché le donne, a parità di ruolo, guadagnano meno di un uomo. Perché le donne sono statisticamente più impegnate nella cura della casa e della famiglia. Perché le donne sono prede, gli uomini predatori.

Perché la nostra cultura è – ancora – fatta così. Non è un assolutismo: ci sono tanti uomini che non si sognerebbero mai di fare una cosa del genere, così come ci sono tante donne che non credono di poter arrecare molestia e invece lo fanno.

È un retaggio culturale interiorizzato nella società, che è storicamente patriarcale. È normalizzato che un uomo urli e fischi ad una donna per strada, al punto tale che alcune donne si sentono validate da questo comportamento, e non importunate, perché è stato insegnato loro che l’unico modo per sentirsi vere donne è quando un uomo esplicita il suo interesse.

Che reazione ha avuto il pubblico ai tuoi disegni? 

Molto variegata, direi. Ci sono state tante persone che hanno supportato la mia idea e ne hanno colto l’ironia volutamente provocatoria, altre ancora hanno espresso la loro opinione in maniera educata, stimolando dibattiti interessanti. E poi, ovviamente, c’è chi ha sentito la necessità di urlare il proprio disappunto con maleducazione. Su Internet c’è sempre qualcuno a cui proprio non va bene quello che dici. Insomma, un po’ un riassunto di tutte le sfaccettature del problema: chi lo riconosce e lo vuole affrontare, chi ne soffre al punto di esserne terrorizzato, chi lo nega e preferisce urlare.

C’è un messaggio che vorresti lanciare ai ragazzi in riferimento a questo tema?

Wow, che responsabilità!

Siate gentili e rispettosi. Sempre, con chiunque. Imparata ad analizzare il contesto in cui agite e cercate sempre di mettervi nei panni della persona che avete davanti. Non urlate le vostre opinioni per sovrastare le altre persone, né per strada né su Internet. È una pratica che è utile in tutto nella vita.

Altre tue tavole molto belle sono quelle dedicate alla comprensione di noi stessi, soprattutto quando sbagliamo. Viviamo in una società in cui non si deve sbagliare mai?

Penso che viviamo in una società nella quale – complici le dinamiche dei social – ci sia un forte interesse personale nel mostrarsi sempre al meglio. Dobbiamo essere sempre “la versione migliore di noi stessi”, essere vincenti, essere belli, avere mille progetti, ostentare una risolutezza che spesso non abbiamo. È un po’ un cane che si morde la coda da solo, vediamo che “tutti” sono risoluti e quindi anche noi vogliamo esserlo.

Che valore ha per te l’errore? 

L’errore fa parte del gioco. È una parte imprescindibile della vita e, anzi, a mio avviso necessaria per fare più o meno qualsiasi cosa. Non so cosa ci succeda a un certo punto della crescita: da bambini sappiamo che, a furia di cadute, impareremo ad andare in bicicletta. Ma arriva un certo punto in cui l’idea di cadere dalla bicicletta ci terrorizza. Sbagliare è normale, e negare l’errore per paura di fare “brutta figura” (con se stessi, con gli amici, con la famiglia) non serve a nulla. Ammettere di aver sbagliato, soffrire per aver sbagliato, invece, ci aiuta a crescere davvero. Se non avessi sbagliato facoltà in triennale, non sarei dove sono adesso.

Domanda personale. Molti ragazzi di oggi faranno un lavoro che neanche esisteva quando sono nati. Te, infatti, che lavoro fai? Come lo hai spiegato a tua madre? 

Io sono una UX/UI Designer. Che letteralmente vuol dire “User experience/User interface Design”. È un lavoro molto nuovo, anche io non sapevo assolutamente cosa fosse prima di diventarlo. Essenzialmente mi occupo della progettazione di interfacce web (app, siti, etc) con un’ottica User Centered, ovvero progetto pensando sempre all’utente finale del prodotto, tramite una ricerca preliminare del target di riferimento e utilizzando una serie di “regole” più o meno universali che servono per fare un sito web che non solo sia “bello”, ma che “funzioni”.

Nonostante glie lo abbia spiegato qualcosa come dieci volte, mia madre non ha ancora capito cosa faccio nella vita per pagarmi le bollette. Per spiegarglielo, ho semplificato all’osso: “Mamma, faccio i siti web”, e poi le ho fatto vedere qualche sito che avevo fatto io.

Quando qualcuno le chiede “Ma quindi Martina che lavoro fa?” lei dice: “È laureata in Internet”.

Ma, personalmente, non mi fa arrabbiare la cosa. È una generazione diversa, e cerca comunque di supportarmi anche se non capisce minimamente di cosa stia parlando per il 90% del tempo.

Da Faleria a Roma. Un articolo su Vice diceva che “se ci nasci, non puoi davvero fuggire dalla provincia“. Te che ne pensi?

Sono cresciuta a Faleria, in campagna, circondata da alberi di nocciole e gatti. E quando ero adolescente sognavo il giorno in cui finalmente sarei potuta andare via dalla provincia.  Volevo fuggire e per questo prendevo il trenino e andavo in città, in mezzo al traffico, alle luci, alla gente. Se qualcuno di un’altra regione mi chiedeva “Di dove sei?” Io rispondevo “Di Roma!”.

Ora vivo a Roma, in una zona centrale, circondata da magnifici palazzi e parcheggi che non si trovano mai. E quando voglio fuggire dalla città, torno in provincia. Solo per andare a prendere un caffè al bar del paese, solo per ritrovarmi in mezzo a persone dai volti familiari (di cui spesso non ricordo nemmeno il nome) e sentirmi dire “Oh, da quando tempo!”.

Quando qualcuno mi chiede “Di dove sei?” io rispondo “Di Faleria, provincia di Viterbo!”. Se fossi cresciuta altrove, sarei una persona diversa. Il luogo in cui si cresce, volente o nolente, influenza il nostro modo di pensare, di esistere, di guardare il mondo. La noia della provincia è quella cosa che mi ha permesso di affrontare la mia vita con immensa curiosità verso tutto ci che è nuovo e che non conosco. La lentezza e la dolcezza della provincia è quella che mi permette di ritrovare l’equilibrio quando lo perdo.

Insomma, sì: ho lasciato la provincia, ma la provincia non ha mai lasciato me. E va bene così.

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