C’è chi ‘resiste’ è il tema del numero cartaceo di novembre del nostro giornale in distribuzione in questi giorni. Con un’appendice ideale, che volutamente abbiamo riservato alla nostra edizione online. Perché tra quelli che oggi (r)esistono alla spazzatura e all’afasia emotiva sempre più dilaganti, c’è sicuramente Cecilia Lavatore.
Incontrarla e, soprattutto, ascoltarla, ci ha donato ossigeno buono. E manciate di ottimismo, pensando alle generazioni e al tempo che verrà dopo di noi.
Giovane (ha poco più di trent’anni), laureata in lettere (“oddiomio, cosa ci farai con una laurea in lettere?” è stato l’inizio di un lieve ma contrastato misurarsi con i suoi genitori, dal quale ne è uscita “andando nella direzione dei miei desideri”), insegna tale ‘spudorata’ materia in un Istituto superiore della periferia romana.
E scrive.
Senza rete. Di sé, ma non solo. Di donne e diritti. Di luoghi, quelli reali, dopo averli guardati dal vivo, centimetro dopo centimetro. Con uno stile narrativo originale, che alterna autoironia a repentine virgole verso svelamenti coraggiosi. Che non cede mai a una prosa artefatta e non strizza l’occhiolino. A nessuno. Neanche a sé stessa.
“Ho iniziato a scrivere durante il lockdown. Così, all’improvviso. Non riuscivo a stare ferma – racconta – e soffrivo un po’ quel dover restare immobili anche se quel periodo ha rappresentato una sorta di rinascita per me. In quei giorni ho ‘sentito’, anche grazie probabilmente al lavoro introspettivo fatto attraverso la psicoterapia, che era arrivato il momento di tirar fuori sensazioni, immagini, vissuti che chissà da quanto tempo facevano parte di me. Senza che io li conoscessi”.
Da quel forno pandemico, al posto di pizze e torte, ne è uscito “Citofonare Morabito, le voci di Corviale”, il suo primo libro, un romanzo/affresco a tinte agrodolci venate di poesia sul “Serpentone”, il famoso complesso di edilizia popolare romano.
“Ecco, dentro quelle pagine – racconta Cecilia – è iniziato quello che definisco come il mio viaggio poetico dentro la realtà. Dentro la vita vera, quella con cui ognuno di noi deve confrontarsi ogni giorno. Ho trovato un mio modo, faticoso e pieno di dubbi e incertezze ma profondamente e autenticamente mio, di raccontare. Spero mi porti, presto o tardi, a coronare il sogno di scrivere un romanzo lungo. Perché scrivere per me è diventata una necessità e un desiderio indomabili”.
Tirato fuori in punta di piedi, sulla scia dei passaparola, diventa un piccolo successo letterario. “Quel libro e quello che nella scrittura è venuto dopo lo devo, in realtà, a Maria Grazia Guida, la mia professoressa di lettere al liceo. Guida di nome e di fatto, almeno per me. Ha dato la scintilla alla mia passione per le autrici e agli autori italiani e internazionali, al leggere e allo scrivere. Insegna ancora la prof e un po’ mi fa pensare (sorride) che nulla è poi casuale, oggi che prof lo sono anche io”.
Dopo quel libro ne sono arrivati altri, uno su tutti “Mia sorella è figlia unica”. Da mettere in cima ai libri da acquistare e leggere durante le festività imminenti. Narra di donne. Di quelle ‘resistenti’. Anche di quelle che per resistere hanno sacrificato la propria vita.
E poi la collaborazione con il quotidiano Il Messaggero (qui trovate il divertente racconto di Cecilia su come è nata) e l’idea di portare sul palco i suoi racconti, insieme ai brani della musicista e cantante Marta La Noce. Lo spettacolo si intitola “Libera” e sta girando l’Italia, con vari appuntamenti nella capitale. Merita di essere visto, è adrenalina e bellezza allo stato puro.
“Esibirsi davanti al pubblico è ogni volta un’emozione diversa”, confida Cecilia. “Non sai mai chi hai davanti e devi sempre conquistare la loro fiducia. Tra l’altro, la donna che sta sul palco è sempre diversa dall’uomo che sta sul palco e ogni volta è come se facessi il funambolo, mi sento sul filo e poi spesso precipito pure. E quando precipito e non ho più protezioni e riesco a lasciarmi andare del tutto, essere là sopra e raccontare alcuni dei miei scritti diventa bellissimo”.
Scopritela, se vi va. Non possiamo immaginare dove sarà Cecilia Lavatore tra dieci anni, che artista sarà e probabilmente non lo sa e ora non interessa saperlo neanche a lei. Di una cosa però siamo certi. Chi scrive una cosa come quella che segue, ha un “dono speciale”. E noi le auguriamo di coltivarlo al meglio, semplicemente perché merita di essere coltivato.
Se potessi posare il cuore da qualche parte… non so, liberarmene, ogni tanto, non dico sempre. Io lo farei. Potessi dormire almeno una notte senza, prendermi una piccola pausa da lui, una tregua, per riposare. Anche una sola sera, potessi lasciarlo magari sul comodino, prima di andare a dormire. O sull’altro lato del letto. O nella soluzione salina, come le lenti a contatto. Oppure nel frigo, lo potrei mettere nel frigo per farlo freddare. Poi lo tirerei fuori dal tapperwear e sarebbe più buono, come certe volte la pasta il giorno dopo. O il tiramisù.
Potessi sbarazzarmi delle sue leggi, delle sue tempeste, delle sue scellerate scellerate scelte, farne a meno, almeno occasionalmente, potessi non andare dove mi porta e seguire non lui, ma qualcos’altro, non so, tipo la milza o il fegato, (perché anche con il cervello ho fatto abbastanza danni). Potessi tenerlo sotto mano, invece che dentro al petto, vicino a me ma fuori da me come un libro da leggere o un elastico per capelli, un ciondolo tolto o un bicchiere d’acqua minerale. Potessi osservarlo con premura ma saggio e tenero distacco, come fosse di qualcun altro, un figlio minore o un bambino speciale. Potessi fare questa cosa di cavarmi via per qualche ora la sofferenza, l’amore, i ricordi questo sangue vivo di dosso io me lo sfilerei come un dente da latte, come un ferro che scotta, come una spina sottile, oppure una verità. Lo farei scivolare via, me ne disferei con un lungo diluito prelievo via da questo povero corpo magari estraneo ma colpevole ai fatti. Avrei la pelle più liscia, bellissima, il sonno profondo, i pensieri sereni. Respirerei meglio, sarei finalmente leggera e sicura di me, per qualche momento sarei quella strega senza cuore che tira dritto e comanda colore, io non avrei più così tanta paura.
È questo che mi dico stasera mentre ti aspetto arrivare sotto casa mia nel nostro quartiere di santi, vecchie fabbriche e treni. Nel nostro quartiere di mercati generali, libri antichi e studenti universitari. E invece, tu arrivi e io sono ancora tutta cuore, accidenti, mi batte dappertutto, tutta cuore grosso su di te, grosse speranze tese nel mio piccolo mucchio di ossa accatastate sulle scale. Tutta cuore di gatta randagia ruggente, splendente e lucida anche senza padrone. E tu sei così bello penso, che ci vorrebbe una poetessa più brava. O forse sei già un leone con gli occhi grandi come fauci sul mio collo fino di antilope africano nel nostro piccolo safari romano. Vieni su che ti faccio vedere la mia collezione di bottiglie d’acqua Sant’Agata semi aperte, i sogni avanzati dai cassetti, la scacchiera di partite perse – ti giuro di poco – con il mio coinquilino, il nostro frigo in carestia, questo balcone da pagare in scomode rate ventennali. Le banchine vuote sui binari stanchi quando si fa sera e nessuno è più in ritardo, nemmeno sulla fine. Le stelle degli altri. Il mio Gran Canyon di libri per terra perché la libreria deve ancora arrivare. Vieni su e toglimi le parole in cui mi nascondo, lasciami nuda, cruda e muta. Come un segreto mio, come un film di Buster Keaton, come Alessia il giorno in cui decise che non c’era più bisogno di parlare, come la TV se lasci solo il labiale. Come gli articoli che scriviamo sul giornale.
Vieni su, toglimi cinque dei miei anni e prenditeli tu. (Lo so, non è un buon affare). Ma così abbiamo la stessa età. E un problema in meno. Lasciami muta nella mia muta di serpente, fammi da ultimo strato di pelle quando mi abbracci, cadrà tutto di me stanotte cadrà tutto di me stanotte tranne il cuore.