Si chiama Leila Maicor, ha più di trenta anni e a Miami ha sperimentato come volontaria il vaccino Moderna, che la società produttrice ha dichiarato affidabile al 95%. Questo è il suo racconto.

“Tre settimane prima che Pfizer e Moderna lanciassero i loro studi clinici sul vaccino contro il coronavirus alla fine di luglio, mio padre morì, da solo, come molti hanno fatto durante la pandemia. Mentre la nostra famiglia viveva questo trauma cercando di dirgli addio come meglio potevamo, mi trovavo di fronte a un’altra spaventosa realtà: Miami stava diventando uno dei principali ‘punti caldi’ del virus negli Stati Uniti e mi era stato affidato l’incarico di scrivere sull’argomento. Ma con il virus in circolazione la mia vita è irrevocabilmente cambiata: mio padre è morto e soffro di asma, con tutte le complicazioni che seguirebbero a un eventuale contagio. L’idea di fare qualcosa per aiutare a tenere sotto controllo questa emergenza sanitaria mondiale mi ha dato un po’ di pace interiore. Sia chiaro, è stata una decisione totalmente personale che non aveva nulla a che fare con il lavoro. Ne ho parlato con amici e familiari, che mi hanno aiutato a decidere che qualsiasi possibile effetto collaterale dello studio non sarebbe stato peggiore di prendere il Covid-19.

Due giorni dopo aver scritto una storia sull’inizio delle prove di fase 3 in Florida, bussai ancora una volta alla porta di un laboratorio, questa volta come potenziale volontario. I Research Centers of America, situati nel sobborgo di Hollywood di Miami, stavano lavorando a giorni alterni a test per Pfizer e Moderna. Dozzine di altri laboratori stavano reclutando volontari negli Stati Uniti. Chiunque era idoneo, purchè svolgesse lavori ad alto rischio: medici, tassisti, dipendenti di drogherie. E giornalisti, come me. Ho preso appuntamento per un martedì di metà agosto. Quella era una giornata Moderna.

Mentre mi misurava la pressione sanguigna, l’infermiera mi guardò e disse, in tono piuttosto serio: “I placebo sono importanti quanto il vaccino. La sperimentazione ha bisogno di un gruppo di controllo. Stai aiutando l’umanità in ogni caso”. Mi sentivo in colpa per essere ossessionata dal mio status, piuttosto che concentrarmi sull’obiettivo generale: aiutare tutti a superare questa pandemia. Quindi ho smesso di fare domande.

L’infermiera ha preso da sei a otto fiale del mio sangue. Ho perso il conto. Mi hanno fatto un test di gravidanza e hanno sottolineato l’importanza dell’uso della contraccezione durante il processo, dicendo che i potenziali effetti collaterali per un feto erano sconosciuti. Poi sono entrate due persone con il vaccino in una borsa termica. O forse era il placebo. Hanno riso quando ho chiesto loro se potevo immortalare quel momento con una foto. Per loro era solo un altro martedì. L’iniezione non mi ha fatto male. Mi hanno portato in una sala d’attesa, dove sono rimasta mezz’ora in osservazione. Ero insieme con altri tre o quattro altri volontari, che hanno trascorso quel tempo con il telefonino in mano. Una delle infermiere indossava un mantello da Superman. “Perchè il mantello?”, ho chiesto. “Perchè qui siamo tutti eroi, ragazza” mi ha risposto. “Ho un sacco di gadget – adesivi, una t-shirt, una maschera – con ‘Covid warriors’ o ‘Covid superheroes’ scritti sopra”. Il laboratorio mi ha fatto scaricare un’app per monitorare la mia temperatura e gli eventuali sintomi. Quando sono tornata a casa, il braccio era un po’ dolorante. Mi chiedevo: ho davvero ricevuto il vaccino? Tre giorni di ricerche su Internet su “sito di iniezione del vaccino”, “dolore muscolare” e altre espressioni non mi hanno portato da nessuna parte.

La seconda dose è arrivata a metà settembre. Ha fatto molto più male, e per un po’. Un piccolo bozzo rosso e duro è apparso proprio sul punto dell’iniezione. Ma non ho ancora idea se fosse il placebo o il vaccino. Devo aspettare che Moderna me lo dica, un giorno. Alla fine ho capito che prendere parte al processo era un modo per elaborare il mio dolore – per aver perso mio padre e aver visto il mondo stavolto. Era un piccolo gesto, ma era l’unico modo in cui ho saputo convincermi che stavo combattendo.”

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