Parlare con Daniele Mencarelli, poeta, scrittore e sceneggiatore, è un viaggio che fa bene all’animo. Uno di quei viaggi in cui il senso dell’umanità, quella reale, fatta di esistenza quotidiana, lo si coglie anche dalla cura con cui Daniele sceglie le parole per rispondere. Il rispetto della vita, di tutte, nessuna esclusa, è il motivo trainante della sua scrittura. Scrittura civile nel pieno significato del termine. Il suo ultimo romanzo, “Fame d’aria”, edito da Mondadori, piace anche per questo: per raccontare noi stessi attraverso il vissuto di nostri stessi simili, diversi da noi solo per destino.

Daniele, da cosa nasce “Fame d’aria”? Da una tua sensibilità, da un fatto, da un’osservazione?
“È un po’ tutte le cose che hai detto, Italo. Con mia moglie ho vissuto l’esperienza diretta di un figlio che ha un disturbo dello sviluppo non meglio specificato e che mi ha permesso di vedere luoghi e di toccare con mano il rapporto genitori-figli in cui la disabilità è talmente grave da chiedere una forma di attenzione totalizzante. Si vive una crisi doppia: da una parte un figlio che richiede impegno assoluto e dall’altra la totale solitudine in cui ti trovi e l’abbandono delle Istituzioni. Viviamo in un Paese in cui certe cure, se non te le puoi permettere economicamente, sono assai difficili da reperire, soprattutto le cure infantili”.

Nel romanzo tu racconti la disperazione di un padre, Pietro, che, assieme alla moglie, Bianca, è l’unico a occuparsi del figlio, Jacopo, affetto da autismo a basso funzionamento, senza valersi di sostegni esterni. Quali rischi psicologici e sociali può produrre un abbandono?
“I rischi li vediamo tutti i giorni. Viviamo in un Paese fatto di tanti abbandoni. Un uomo abbandonato è fragile soprattutto dal punto di vista psicologico. La disabilità in Italia la vivono in tanti, l’80% per cento delle famiglie ha al proprio interno un problema riferibile al tema della psiche. Solo questo dato fa comprendere il senso e la portata delle difficoltà che si vivono giorno per giorno anche dal punto di vista psicologico”.

«Vi riempite la bocca, ma non ci state voi all’inferno». A Pietro, ad un certo punto del libro, fai dire questa frase. Com’è l’inferno, Daniele, per il tuo Pietro e per i tanti che come lui vivono questo dramma?
L’inferno è la solitudine, l’isolamento. Che chiede aiuto, sostegno affettivo ed economico. Le difficoltà economiche, sommate alle gravi vicende personali, danno origine a una sorta di abbandono sociale. Un luogo fatto di miliardi solitudini. Perché ogni solitudine è un inferno e ogni abbandono è un isolamento”.

Tu racconti di come l’amore può trasformarsi in fastidio, in odio. In che cosa consiste, parafrasando il titolo del tuo precedente romanzo, la salvezza? Chi è l’Oliviero, il meccanico che Pietro incontra nel tuo romanzo per sistemargli l’automobile, che può dare salvezza?
Voglio continuare a credere che siamo tutti noi. Voglio continuare a credere in un’umanità che si trasforma in salvezza. Voglio continuare a credere in un mondo che continua ad accorrere verso chi ha bisogno di aiuto. Nella vita accade molto spesso ciò che racconto nel mio libro: la salvezza viene prestata da persone sconosciute e che, come avviene nel mio romanzo, si affezionano a questo padre, che soffre anche se non lo dà a vedere, e a questo figlio che non esprime niente di sé, ma che invece esprime tutto di sé attraverso la sua sofferenza”.

Perché le malattie mentali ancora oggi fanno ancora tanta paura?
“Perché da una parte l’uomo ha perso il contatto con la natura e dall’altra perché c’è un impoverimento linguistico che ci fa interagire con paura con certi temi. La natura della vita è complessa e ogni tema doloroso, dalla morte al destino, dalla disabilità al tempo, l’uomo contemporaneo, che ha molti strumenti a disposizione ma poche lingue, lo vive male. Io che ho incontrato e amo la poesia sono stato fortunato, perché per me la poesia è stata un grande suggeritore di parole. Parole che aiutano a capire e a vivere meglio la natura umana e la malattia mentale”.

Quanto è sottile, e se lo è, il rapporto tra autore e protagonisti dei propri libri?
“Ogni autore, nei suoi scritti, ha una certa consanguineità con ciò che rappresenta e che testimonia. Per me la letteratura è una forma di testimonianza della realtà. C’è una gran voglia di testimoniare e di far conoscere le proprie esperienze di vita. La grande letteratura, quella dei grandi sguardi sulla realtà, ha fatto questo: fermare per sempre con l’inchiostro questa eterna esperienza.

Tu sei solito affrontare temi forti, quali il TSO, l’Ospedale Bambino Gesù, l’autismo, la povertà… In base alla tua esperienza di scrittore, quanto è importante il ruolo della letteratura su questi temi?
La letteratura è importantissima per cambiare l’immaginario collettivo distorto. Come dicevo prima: è lo sguardo sul reale. Oggigiorno assistiamo ad una guerra tra poveri. C’è una lotta tra poveri, dove un sempre nuovo povero azzanna un altro povero. Ed è così perché oggi viviamo in un mondo pieno di individualismo, di solitudine. La letteratura, la poesia, toglie dalla solitudine, ferma i momenti e permette di far capire anche al più lontano ragazzo di provincia che si sente solo che il suo dolore, la sua solitudine, il suo abbandono, è il dolore di tutti e che il dolore è nato con l’uomo. La letteratura, quindi, grazie allo scrittore, dà sostegno e serve a reagire”.

Daniele, quanta “fame d’aria” c’è fuori dal nostro microcosmo personale?
“C’è n’è tantissima, Italo. C’è fame d’aria di uguaglianza, di lavoro e di cura. Pensiamo solo al mondo del lavoro, ad esempio. I contratti delle grandi aziende oggi per i lavoratori sono imparagonabili a quelli di anni fa. Il mondo per i nostri figli, nel corso del tempo, si è via via fatto più barbaro: dal lavoro alla vita civile”.

Cos’è per Daniele Mencarelli la “speranza”?
“La speranza per me è cosa concreta. È, per esempio, oggi, mentre parlo con te, andare in macchina verso la stazione Tiburtina, prendere il treno, arrivare a Bologna per parlare nel pomeriggio dei temi affrontati in questa intervista. Costruire la speranza è oggigiorno la sfida cha abbiamo davanti. Solo così la speranza diventa consistenza. Io, che sono un aspirante credente, penso che un uomo che si adopera per gli altri avrà un riconoscente aldilà. In questo mi identifico molto in una poesia di Giorgio Caproni: “Non so più agire/ e prego; prego non so ben dire/ chi e per cosa; ma prego/ prego (e in ciò consiste/ – unica! – la mia conquista)/ non, come accomoda dire/ al mondo, perché Dio esiste:/ ma, come uso soffrire/ io, perché Dio esista”.

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