La rappresentanza degli interessi attraverso agenti intermedi è strutturalmente collegata all’ individuazione di interessi comuni nel mondo del lavoro. Esistono e sono esistiti nella storia del Capitalismo Manifatturiero del primo Neocapitalismo interessi comuni aggregati per classi sociali o per ceti. La rappresentanza di questi interessi è possibile attraverso forme di rappresentazione politica e sindacale nella misura in cui esistono aggregati per classe, quindi la debolezza dei corpi intermedi e degli agenti intermedi, oggi ha a che fare probabilmente con la decomposizione di agglomerati d’interesse. Ciascun individuo oggi riconosce nell’ arco del tempo in maniera molto volubile e volatile anche i propri interessi materiali.
Una società frammentata nella quale ciascuno è soggettività irriducibile, difficilmente può riconoscersi in un soggetto collettivo, cioè i sindacati e i partiti, per come sono stati conosciuti per una lunga fase della storia occidentale, una fase di ridistribuzione della ricchezza, avanzamento dei diritti. Questo è uno dei problemi strutturali della nostra società.
Come dicono tanti autorevoli studiosi sembra che la nostra società si avvii ad essere una società “senza lavoro”, con gradi di gravità ed estensione che sono diluiti nel tempo, ma c’è una convergenza di fondo sul fatto che l’idea che la società concepita sul lavoro su cui si è fondato l’Occidente post illuministico sia “saltata per aria”.
Una società che va in quella direzione è strutturalmente “atomizzata”, e diventa sempre più difficile proporre delle piattaforme vagamente collettive o organizzate per gruppi. Quello che è avvenuto prima degli anni ‘80 cioè il modello del capitalismo manifatturiero basato sull’idea dell’occupazione, dei consumi, del profitto e l’allargamento del tempo libero. Il circuito che ha retto la società pre 1980 è “estensione dell’occupazione”, addirittura con l’obbiettivo della totale occupazione, che consentiva di mettere in “tasca salari” ai lavoratori , permetteva loro di consumare e quindi di creare profitti alle imprese per poi pagare nuovi salari. C’è un’idea di crescita infinita, in questo schema.
I consumi generano profitto per i produttori delle merci ma anche per i distributori, insieme al profitto questo meccanismo ha generato anche la riduzione dell’orario di lavoro, questo è un trend iniziato con le battaglie dei primi dell’800.
L’allargamento del tempo libero ha ingenerato una nuova occasione di profitto, perché il tempo libero può essere dedicato ad attività oziose e contemplative oppure nei centri commerciali, cinema e simili, con una serie di produzioni simboliche. La percezione del fatto che si possono produrre beni simbolici e materiali grazie alla tecnologia rompe la strutturazione della catena del tipo manifatturiero perché i beni simbolici costano di meno dei beni manifatturieri, richiedono meno persone che li producono e grazie alle tecnologie sono quasi a costo zero per i processi di archiviazione e distribuzione.
Inesorabilmente cambia l’Occidente, cambia a metà degli anni ‘70 con l’introduzione dell’ICT, Information Communication Technology, con questo accrescono anche più facilmente i paradisi fiscali, i surplus di profitto non devono più essere spostati fisicamente ma con la tecnologia si esportano i capitali. La crescita economica dell’Occidente e la distribuzione conflittuale dei diritti e delle risorse è stata legata al bisogno del Capitale di avere un lavoro non troppo conflittuale, questo ha consentito anche quel prelievo fiscale che ha incrementato il lavoro pubblico, cioè che lo Stato producesse più servizi.
Stare sul mercato, sfidare il rischio d’impresa per chi possiede molto denaro è diventato meno attraente che spostare attraverso le banche il denaro su investimenti e azioni.
Quando meccanismo perde il funzionamento e la sua ragion d’essere, si è raggiunto il punto che proietta verso una società senza lavoro, che produce un dimagrimento e uno sfoltimento degli attori della società “fordista”. La direzione di marcia ci conduce ad uno scenario completamente diverso rispetto al lavoro.
La crisi fiscale dello Stato è condannata ad un impoverimento degli apparati pubblici perché non ci sono più soggetti a cui prelevare le imposte, perché i grandi capitali hanno percorsi alternativi, e non sono più investimenti che producono posti di lavoro, il rischio è una drammatica forma di esaurimento dell’occupazione. La cosiddetta tempesta perfetta. La crisi fiscale degli stati alimenta la logica del “debito sovrano” e questo produce un pauroso dimagrimento delle politiche di welfare. Tutto questo crea disagio ai cittadini, una situazione di caos ed un contesto di profonda sfiducia.
Un momento storico di transizione continua, in cui è in crisi non solo il lavoro ma anche i sistemi politici, sindacali e sociali.
Gli agenti e i corpi intermedi sono stati fino a pochi anni fa i principali protagonisti della narrazione politica, la storia del nostro Paese è stata fatta dai sindacati che spesso fungevano da collettore di voti per i partiti, ma oggi con la trasformazione del lavoro e dei nuovi scenari politici ed economici che ci prepariamo ad affrontare, quale ruolo possono avere ancora i sindacati?