Come si è arrivati ad una protesta così esasperata come quella dei pastori sardi?
È una situazione che purtroppo si trascina. Il non rispetto delle leggi e dei regolamenti che il nostro paese ha, penso all’articolo 62, penso a tutto il sistema approvato per quanto riguarda il pacchetto latte, che prevederebbe anche la stipula di contratti scritti, prima che inizi la fornitura del prodotto agricolo in questo caso del latte. Tutto questo ha determinato che ci sia un prezzo che non è in linea nemmeno con quello che sono i costi di produzione agricola che le aziende sostengono solo per l’alimentazione del bestiame, senza neanche considerare il costo di ammortamento, degli investimenti o anche il costo del lavoro. Solo ciò che viene utilizzato per l’alimentazione del bestiame dovrebbe portare ad un prezzo riconosciuto all’impresa agricola di 77 centesimi. Di fronte a questo nasce l’esasperazione da parte delle imprese agricole.
Quali progetti metterete in atto per salvaguardare il Made in Italy?
Partiamo da un nuovo rapporto con l’industria e la cooperazione agroalimentare italiana o meglio di quell’industria e di quella cooperazione che come Coldiretti hanno a cuore il futuro di questo paese. Quindi facendo progetti di filiera che siano in grado di remunerare le aziende agricole, partendo da quello che è il lavoro svolto e la valorizzazione di quello che è il prodotto agricolo ma nello stesso tempo valorizzando tutta la filiera produttiva anche con principi che possono portare ad una possibile defiscalizzazione per quelle industrie che utilizzano prodotti agricoli italiani. Oppure principi per i quali si punti ad un sistema legato all’internalizzazione dei prodotti agroalimentari ma anche in questo caso partendo da quelli che sono i veri prodotti agroalimentari italiani e non quelli che si nascondono dietro un marchio che richiama l’Italia ma che con l’Italia non ha nulla a che fare.
Le politiche europee hanno inciso negativamente sulla produzione e sulla distribuzione dei prodotti nostrani?
Basti pensare alla legge del Codice Diganale la quale prevede che un prodotto possa essere denominato con il nome di quello stato membro, in questo caso parliamo d’Italia, quindi come un prodotto italiano, solo laddove venga fatta l’ultima fase di trasformazione. Questo vuol dire che è possibile acquistare la materia prima proveniente in qualsiasi altro paese, si fa l’ultima trasformazione in Italia e quello diventa un prodotto agroalimentare italiano, questo è inaccettabile, perché è uno dei meccanismi per i quali si è valorizzato non tutta la filiera produttiva, ma solo la fase di trasformazione. Inoltre abbiamo la non tutela dei prodotti a livello mondiale, sicuramente l’Europa da questo punto di vista potrebbe fare molto, ma poco ha fatto. Per quanto riguarda l’Italia noi abbiamo un valore di “Italia souting” cioè di tutto ciò che richiama l’italianità ma che non ha nulla a che fare con noi, che ha superato oggi 100 miliardi di euro, se questo valore dovesse essere riportato in un contesto nazionale vorrebbe dire un’occupazione di oltre 100 mila posti di lavoro solo nella fase di trasformazione, ma soprattutto 100 miliardi di euro che vengono ridistribuiti sull’economia dell’intero paese.
Cosa possiamo fare a riguardo?
Noi dobbiamo batterci per far sì che venga meno il principio del codice doganale, che ci sia un’etichettatura anche a livello europeo ma che parta dalla valorizzazione del lavoro agricolo, del prodotto, della fase di trasformazione e commercializzazione. Serve un grande sforzo anche come sistema paese e in questo caso l’Europa non c’entra, l’Italia può fare molto anche perché poco ha fatto negli ultimi 20 anni. Ad esempio se pensiamo al sistema infrastrutturale, si continua a parlare di Tav come se fosse l’unico problema, noi diciamo che il paese ha bisogno di un piano infrastrutturale partendo dal Mezzogiorno, esattamente come è stato fatto in altri paesi, penso alla Spagna dove sono partiti valorizzando il trasporto su rotaia collegato agli snodi aereoportuali, creando un meccanismo con il quale le merci possono viaggiare in modo più veloce, sicuro e con dei costi più bassi.
Sono sufficienti le misure sull’etichettatura per contrastare il fenomeno delle agromafie?
L’etichettatura aiuta molto. Dove c’è la criminalità si cerca di contraffare anche le etichette e l’origine prevista in etichetta. Però di fronte a questo se ci fosse un’etichettatura certa che valorizza il prodotto agricolo accompagnato dai controlli, che fortunatamente questo paese ha e che potrebbero ulteriormente essere rafforzati, vuol dire intraprendere una strada che fa una lotta frontale alle agromafie. Tenendo presente che le agromafie non sono solo nella fase del prodotto agricolo ma si distribuiscono purtroppo all’interno di tutta la filiera, arrivano all’industria di trasformazione, ad alcune catene di distribuzione ma soprattutto arrivano alla fase di somministrazione ad esempio nella ristorazione. Ci sono molti casi che abbiamo seguito negli ultimi anni di attività criminali che gestivano catene di ristoranti, è fuori dubbio che la ristorazione rappresenta la parte finale della catena ma dietro c’è tutto il resto della filiera.
In difesa anche dei consumatori oltre che dei produttori?
Coldiretti ha fortemente voluto, in questi ultimi 15 anni un connubio tra il produttore agricolo ed il cittadino consumatore. Noi riteniamo che la difesa del cittadino e del consumatore sia fondamentale e quindi non vada ingannato ma messo nella condizione di poter scegliere quello che deve e può acquistare insieme alla tutela di quello che riguarda il tema della salute e della qualità dei prodotti offerti. La Corte dei Conti ci dice che è quasi impossibile controllare il flusso dei prodotti agroalimentari provenienti da paesi extra UE e questo ci preoccupa, per quanto noi alziamo l’attenzione e andiamo ad opzionare più di 380 danni che noi abbiamo avuto solo nell’ultimo anno su prodotti che sono stati verificati, su 5 prodotti 4 sono d’importazione, quindi al di là di tutto il prodotto agroalimentare italiano è quello più garantito, più sicuro e quello più controllato.
Come si pone Coldiretti rispetto alla globalizzazione economica ed agroalimentare?
La globalizzazione era stata venduta come un’opportunità per ridistribuire valore anche nei confronti dei paesi più poveri e in difficoltà in realtà è successo esattamente l’opposto. Soprattutto il modello di globalizzazione europeo e statunitense ha creato le condizioni per cui si è accentrata ulteriormente la ricchezza nelle mani di pochissimi soggetti. Se parliamo di agroalimentare, ad esempio, 80% del cibo è controllato da 10 multinazionali in tutto il mondo, difronte a questo la globalizzazione non è servita. Auspichiamo che strumenti di carattere innovativo come ad esempio la blockchain possano aiutarci ulteriormente a comunicare, ma serve contestualmente anche investire per far sì che il vero prodotto, una volta che il consumatore ne è consapevole, possa andare a sminuire o a svuotare quello che si è raccolto intorno all’ Italian souding.
Ci può fare un bilancio del Made in Italy?
Nonostante l’ultimo anno abbia visto una decrescita ed un rallentamento significativo per tutti gli altri settori produttivi, l’agroalimentare è cresciuto ancora, è quello che è cresciuto di più con un +3% abbiamo superato i 42 miliardi di euro per quanto riguarda il valore economico però ritengo che sul tema legato all’internalizzazione il nostro Paese debba e possa fare ancora tantissimo, basti pensare che noi abbiamo un sistema assolutamente frammentato, ogni regione pensa a fare internalizzazione, alle regioni si accompagnano le camere di commercio, abbiamo una molteplicità di enti a livello nazionale che si occupano dello stesso argomento, noi abbiamo bisogno invece di copiare e fare quello che hanno fatto altri paesi, penso ad esempio al modello francese con un’unica agenzia che si preoccupa di accompagnare le aziende che produco in Francia con una grande regia anche con quello che può essere il ruolo delle ambasciate.