I bambini, per la precisione. E non solo quelli ucraini. O meglio: non solo soprattutto quelli ucraini. L’avverbio, mai come in questo caso, è d’obbligo. Sono loro le prime vittime di questa come di ogni guerra. Bambini morti, feriti, bombardati, rifugiati o sfollati in Ucraina. Bambini sottoposti alla torrenziale pioggia mediatica dei giornali e delle televisioni nel resto del mondo (ad eccezione della Russia, evidentemente).
Stamattina, in auto, accompagnandola a scuola, anche la mia bimba mi ha fatto capire quanto strazio psicologico, e fisico, sta arrecando loro questa guerra.
“Lo sai, papà…” mi ha detto, di punto in bianco, tra una canzone e un’altra trasmessa dalla radio “…che molti bambini stanno fuggendo dall’Ucraina e stanno arrivando in Italia…”. “E tu come lo sai?” le ho chiesto. “Lo so perché la maestra ce ne ha parlato in classe e perché ieri ho preso il tuo giornale e ho visto le foto dei bambini che scappano…” ha risposto. “E tu cosa ne pensi di quanto sta accadendo?” ho continuato a chiederle. “Che la guerra è una cosa brutta, ma brutta brutta brutta, papà” mi ha replicato.
Brutta, appunto. Quell’aggettivo, ripetuto quattro volte quattro in manco un nano secondo, mi ha fatto riflettere assai per tutto il viaggio di ritorno da scuola, dove l’ho lasciata, a casa.
Toccato dalle parole di mia figlia e stimolato a saperne di più delle conseguenze, e degli effetti, che la guerra produce sui bambini, ho messaggiato ad un mio amico psicologo, infantile, tra l’altro. Un medico della psiche che, oltre a frequentare per diletto, interpello ogni qual volta la ragione arranca nella comprensione delle cose. “Prestami i tuoi occhi di bambino” gli ho scritto via wa sul telefonino e spiegami il tuo spiegabile…
Mi ha mandato l’immagine di due pagine di giornale in cui si parla di “bambini rimasti in silenzio” a causa di quanto sta capitando. Bambini che preferiscono disegnare più che parlare… Bambini che sono bloccati e traumatizzati dalla paura… Bambini che soffrono la sindrome dell’abbandono… Bambini che fanno brutti sogni e che pregano, o invocano, pace e salute per sé e per i propri familiari…
“Ci mancava la guerra ora, dopo la pandemia“… mi dico spesso in questi giorni. Quasi ad esorcizzare il momento. La generazione di mia figlia in così poco tempo ha già conosciuto due inquietudini straordinarie. Due di quegli appuntamenti con la vita che ti segnano il tempo per sempre. Fino a cambiartelo.
“Per fortuna esiste la scuola!” ho risposto al mio amico psicologo. Aver lasciato anche oggi mia figlia nelle sicure mani dell’Istruzione mi dà speranza. A differenza di tanti altri genitori i cui bambini, in Ucraina come in altri luoghi in cui la guerra imperversa, a scuola anche oggi non vanno…
Questione di fortuna, ho pensato mentre lo scrivevo: venire alla luce in un determinato posto piuttosto che in un altro, a volte, non è cosa da poco. Ma nel meditarlo un senso di gelo mi ha attraversato per tutto il corpo. Perché ogni posto, in fondo, è pressoché uguale all’altro. Siamo noi che lo abitiamo a deciderne la sorte… sorte dei bambini inclusi. E, guardandosi attorno, non è certo un bel vedere. Il “brutto, brutto, brutto, brutto”, inesorabile, avanza…