Scende la sera a Capena e, mentre tutto intorno tace, due grandi saracinesche si alzano a pochi passi dal centro storico.

Il profumo di pane si diffonde nell’aria: il Vapoforno Petrongari ha iniziato a sfornare.

Dalle ore 22 alle 6 del mattino non c’è un attimo di pausa: impasti in lievitazione, macchine tagliatrici che sferragliano e forti braccia al lavoro.

Ci accoglie Elia Petrongari, uomo dallo sguardo gentile e con le mani già ricoperte di farina. Con lui ci sono due operai fidati, Vasile e Roberto, che lo affiancano da anni.

Elia gestisce l’attività con la sorella Francesca e i cugini Andrea e Alessandro, ma dietro la lunga storia del panificio ci sono soprattutto i loro papà, Agostino e Roberto, che nel 1976 ebbero il coraggio di mettersi in proprio.

Agostino aveva già messo le mani in pasta da adolescente, durante un’esperienza come apprendista nel forno della famiglia D’Acunto. Proprio da loro, una volta cresciuto, rilevò l’attività insieme a Roberto e scrisse così la prima pagina di una storia che continua fino a oggi.

Una vita di passione e fatica, quella dei panettieri, di maestria soprattutto. Perché se è vero che i tempi corrono, le tradizioni in qualche modo restano. E non esiste macchinario che tenga: i filoncini di marsicano si fanno solo a mano, parola di Petrongari.

Mentre un impasto lievita, c’è già altro che cresce nel forno. Quando Vasile sforna, Roberto è lì pronto con nuove prelibatezze da cuocere. Pagnotte con o senza sale, fruste, ciabattine, pizzette.

Passano così le ore nel panificio, a ritmo serrato e con pochi istanti liberi per un caffè. Il meccanismo è oliato dall’esperienza e dagli anni, nulla resta indietro e i tre uomini si muovono in una danza incessante tra teglie e sorrisi.Nel corso degli anni la produzione è cambiata con lo scopo di accontentare le nuove esigenze dei clienti” afferma Elia, indicando un’impastatrice più piccola in cui si lavora il pane con i semi.

Abbonda anche la farina integrale, e soffici panini con i semi di sesamo sono adagiati su teglie bollenti. E poi c’è il pane arabo, lavorato con la pasta madre per chi è intollerante al lievito di birra.

La varietà è grande, ma sempre con un’impronta marcata nel segno della tradizione.

“Le rosette, quelle sì che hanno bisogno di accortezza” ci svela Vasile, che da vent’anni lavora con i Petrongari, dopo aver già fatto esperienza nella sua terra di origine, la Romania. “L’acqua per farle perfette deve essere a 6 gradi, non uno di più”.

La danza rallenta e si fa ancora più accurata: si lavora a porte chiuse, poco importa che sia estate e che l’aria all’interno del locale si faccia rovente. Un solo sbalzo di temperatura potrebbe pregiudicare la lievitazione.

Una grande macchina smuove l’impasto e lo modella. Con estrema delicatezza, i tre fornai maneggiano le rosette e fanno sì che arrivino a cottura senza subire scossoni.

È ancora buio fuori, ma l’alba si avvicina e sulla porta compare Agostino, classe 1946. Sono le 5 del mattino e, benché siano entrambi in pensione, ogni mattina lui e Roberto arrivano al forno per dare una mano e per fare i conti.

Quando io e mio fratello aprimmo il panificio fu un azzardo” ci racconta Agostino “le cambiali erano da 700 mila lire, il primo mese ne incassammo solo 400”.

Ma il pane era buono davvero e presto il lavoro decollò. Dopo un anno lasciammo i locali in affitto e ci trasferimmo qui, dove ancora oggi i nostri figli impastano e le nostre mogli, Filomena e Graziella, fanno i dolci alla vecchia maniera”.

L’azienda a conduzione familiare è cresciuta florida, ma la crisi si sente: “Durante il lock down ci si improvvisava panettieri in casa per passare il tempo e il lavoro calò drasticamente. Ora subiamo i rincari dovuti alla guerra, con il gas e le materie prime che sono alle stelle. A gennaio, per la prima volta dall’entrata dell’euro, è salito il prezzo del pane”.

Anche la società cambia e con essa mutano i consumi: “Vivevamo in paesi contadini, nel periodo della vendemmia e della raccolta delle olive non si faceva in tempo a sfornare che c’era già nuova richiesta. Il pane era il sostentamento primario, non mancava mai sulle tavole. Oggi se ne consuma molto meno, dicono che fa ingrassare”.

Ma la famiglia Petrongari non si ferma, il lavoro ancora c’è: 5 quintali di farina al giorno, circa 40 negozi da rifornire nell’area Flaminia e Tiberina, più qualche incursione nella capitale.

Ormai albeggia, la storia continua e ci si va a riposare in attesa del nuovo turno.

Chi abita nei pressi del forno lo sa: le sere d’estate, quando intorno tutto tace, il profumo che viene dal panificio si fonde con quello dei gelsomini notturni. È la tradizione che cammina tra le vie del paese, abbraccia generazioni di capenati e li risveglia al mattino con la fragranza dei filoncini appena sfornati.

Impossibile parlare del Vapoforno senza citare la pizza rossa. Prodotto di punta del panificio, ha reso famosa la famiglia Petrongari ben oltre i confini di Capena.

È un’eccellenza nata quasi per caso, quando la fame notturna di alcuni giovani del paese incontrò le mani sapienti di Roberto e Agostino. Era il 1976 e il centro del paese brulicava di nuove attività commerciali. La piazza era viva e si giocava a far tardi al bar. Agostino e Roberto Petrongari muovevano i primi passi lì vicino, nel forno inaugurato da poco. In piena notte, sommersi tra filoncini e panini, arrivò la richiesta insolita dai ragazzi che bighellonavano al chioschetto della famiglia Benigni: avevano fame e speravano in una pizza. Presto fatto: i due fratelli si misero all’opera sfornando quella che ancora oggi è considerata la più buona in assoluto nell’arco di molti chilometri. Inutile chiedere il segreto di questo successo: quando si usa abbondante olio d’oliva, ci dice Agostino, non si sbaglia mai.

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