Durante la sera del 28 maggio del 1606, in Campo Marzio, un corpo giace al suolo: è la salma di Ranuccio Tomassoni. In cielo campeggia già la luna quando, a seguito di un fallo subito nel gioco della pallacorda, Michelangelo Merisi da Caravaggio ferisce mortalmente uno dei membri più influenti della fazione filospagnola su suolo romano. Questo drammatico evento segna il punto più alto di un climax ascendente di torbide vicende nelle quali il pittore lombardo si ritrova coinvolto, a causa soprattutto del suo noto carattere irrequieto e tormentato.

È così costretto a lasciare Roma alla volta di Napoli, mettendo in atto una serie di depistaggi che ne facciano perdere le tracce e che gli risparmino almeno la decapitazione. Eppure, la città ha già gli occhi pieni del suo talento che, malgrado le invidie e i sabotaggi dei detrattori, è riuscito a farsi strada tra nobili ed ecclesiastici, procurando al pittore una ragguardevole quantità di committenze prima della sua ultima partenza.

Quando noi oggi attraversiamo a piedi la zona che circonda Piazza Navona e il Pantheon, ovvero l’area che si irradia a partire da Palazzo Madama, e ci aggiriamo distrattamente in quel gomitolo di vicoli, percorriamo proprio le stesse viuzze percorse un tempo da Caravaggio. L’atmosfera che caratterizza questa zona di Roma è ancora così autentica da far pensare, a volte, di potersi imbattere in qualsiasi momento in uno degli artisti più grandi che la nostra storia abbia conosciuto.

Caravaggio a Roma è rimasto per circa dodici anni e di questo prolifico soggiorno resta una prima indelebile traccia nella chiesa di San Luigi dei Francesi, proprio a pochi passi da Palazzo Giustiniani, oggi sede del Senato. La commissione di completare la decorazione della Cappella Contarelli segnò per il Merisi il debutto pubblico della sua arte e arrivò in un momento estremamente prolifico della sua carriera, quando quel processo di “ringagliardimento degli scuri”, caratteristico di tutte le sue opere future, era ormai pronto a raggiungere il suo apice.

Matteo Contarelli, il committente, ingaggia dunque Caravaggio, probabilmente su consiglio del cardinal del Monte, affinché realizzi tre monumentali tele da apporre al di sotto della volta già precedentemente affrescata dal Cavalier d’Arpino. I tre episodi tratti dalla vita di San Matteo sono ancora oggi di forte impatto emotivo. Le figure, prive di qualsiasi sorta di idealizzazione, sembrano vivere nel quadro, trascinando l’osservatore in una realtà ricreata attraverso un eloquentissimo naturalismo. L’arte caravaggesca, che in quegli anni apre una strada alternativa quanto fortunata al classicismo carraccesco, mostra nella Vocazione, nel San Matteo e l’angelo e nella scena del Martirio del santo tutta la sua potenza.

La prima tela raffigura il momento preciso in cui Levi d’Alfeo (poi Matteo) viene chiamato da Cristo. La chiamata è evocata attraverso il dito michelangiolesco che lo indica e da un emozionante fascio di luce che, come un faro teatrale, attraversa la scena da sinistra verso destra. La rappresentazione di un episodio a carattere sacro è qui portata al grado zero: Matteo è prima di tutto un uomo.

Il San Matteo e l’angelo, seconda versione dell’opera (la prima venne rifiutata a causa dell’eccessiva desacralizzazione dell’episodio), mostra di nuovo quel forte contrasto tra luce e ombra, tipico del pittore. La transitorietà del momento è resa evidente dalla posizione instabile dello sgabello su cui siede il santo, che sta per sfondare la tela e cadere ai piedi dell’osservatore, donando all’immagine forza e profondità spaziale.

La tela a destra, che conclude la serie raffigurando l’ultimo momento della vita di Matteo, ovvero la sua morte, è stata eloquentemente definita da Roberto Longhi la traduzione in pittura di “un fattaccio di cronaca nera entro una chiesa romana”.

Il fulcro della composizione è costituito dalla figura dell’armigero al centro della scena, intento a trattenere con la mano sinistra Matteo in abito da sacerdote che, colpito, si accascia sul gradino della chiesa, mentre con la destra impugna vigorosamente la spada. La tela è pervasa da una forte agitazione, restituita attraverso le espressioni sconvolte di coloro che assistono al drammatico evento e i loro movimenti irrequieti. Dietro, sull’altare, campeggia la fiammella di una candela, privata però della sua luminosità: anche qui, infatti, una luce esterna costruisce l’opera, facendo emergere le figure dall’oscurità retrostante.

L’angelo portatore della palma del martirio è l’unico elemento che riporta l’avvenimento in una dimensione sacra. Tra i volti, l’ultimo in fondo, affacciato da una colonna di questa architettura appena accennata, cattura l’attenzione più di altri; cela in sé uno sgomento muto, un dolore viscerale trasmesso attraverso lo sguardo, compassionevole e allo stesso tempo quasi disgustato: è la figura di Caravaggio, che, dolente, si appresta a scappare e ad abbandonare quel luogo di sofferenza, proprio come dovette presumibilmente lasciare Roma in quel lontano maggio del 1606.

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