“Pensò a quel silenzio perfetto. Anche adesso, come allora, nessuno sapeva dove lei si trovasse. Anche questa volta non sarebbe arrivato nessuno. Ma lei non stava più aspettando. Sorrise verso il cielo terso.”
La solitudine dei numeri primi (Paolo Giordano)
Chissà se Marinella avrà sorriso quell’ultima sera, seduta al suo tavolo, mentre cenava. Oppure, accorgendosi di quel che stava accadendo, avrà ripensato per un lungo attimo ai giorni passati. Chissà.
Di lei, di questa settantenne con gli occhi scuri, non restano che poche immagini e null’altro. Nessuno a raccontarne un ricordo, un frammento di vita, la gioia di una promozione o il dolore per un amore finito, le risate tra amiche, una vacanza al mare, una confidenza, un briciolo di esistenza da conservare. Nulla.
Ancora quaranta o trenta anni fa, nei piccoli centri di provincia come quelli della nostra zona e a Roma, soprattutto nei quartieri più popolari, c’era l’abitudine di salutare se si incrociava qualcuno per strada, in un bar, all’ufficio postale. Anche se non ci si conosceva, un cenno o un sorriso non si risparmiava a nessuno. Con altri erano anche parole, risate, racconti, abbracci, carezze. E si tornava a casa, la sera, con un bagaglio pieno di piccoli e preziosi tesori. Il senso degli altri. E di noi, negli altri. Un modo di stare al mondo che metteva tra i primi posti quello di coltivare il proprio “essere umani”. C’era calore intorno e dentro le esistenze di molti, allora. Di quasi tutti.
Il tempo scorre. Le cose cambiano. Dentro decenni in cui si è lasciato sempre più spazio edonistico all’avere e all’apparire, per le cose semplici e autentiche si è fatta più dura. La gentilezza, un tempo virtù, è divenuta qualcosa di cui quasi ci si vergogna. Conta essere spavaldi, predatori, collezionisti di soldi, potere, spazio. E conquiste, soprattutto. Di qualsiasi genere.
Contano i like su una foto per la quale ci si mette in posa per ore, coltivando la nostra vanità. Magari lasciati lì distrattamente da qualcuno che neanche conosce la nostra voce, come brillano al tramonto i nostri occhi o come trema la nostra pelle in una serata più fredda.
E salutare un anziano per strada, sorridere a un bimbo al parco, scherzare con una cassiera o un barista è qualcosa che, semplicemente, non si fa. Per non correre il rischio di apparire “strani”, per menefreghismo, indifferenza, per restare ben saldi dentro la nostra “comfort zone” fatta solo di cose artatamente belle, da confezionare con cura per poi venderle ai tremila, quattromila, ventimila followers sui social. Per illudersi di sentirsi meno soli o apprezzati. Senza comprendere che è proprio delle frustrazioni causate da queste vetrine perverse che si nutrono le piattaforme digitali.
Servirebbe una nuova ecologia della mente. Servirebbe staccare il telefono per un paio di ore a settimana e andare a giocare a burraco con qualche ospite di un centro anziani. Oppure smetterla di prendersi troppo sul serio e ricominciare, piano piano, a guardare gli altri. Guardarli davvero, con un sorriso sulle labbra e negli occhi, mentre ci affiancano in metropolitana o fanno la fila con noi davanti a una banca o a una pizzeria.
Servirebbe smetterla di indossare abiti artificiali e tornare ad essere empatici. Basterebbe poco. Ma non ce la facciamo.
Anche per Marinella e le altre mille e poi mille persone come lei non ce l’abbiamo fatta.
Ci ha dovuto pensare il vento, al posto nostro. Che ha iniziato a soffiare talmente forte, in quel giardino, da richiamare l’attenzione di alcuni ex-umani. E spingerli, con le sue folate, a bussare a quella porta rimasta chiusa per due lunghissimi, interminabili anni.
Il vento, gli alberi, la natura. A ricordarci, per un attimo, come dovremmo essere. Mentre la vita, di ognuno di noi, ancora corre e pulsa.
Perché la vera tristezza non è non accorgersi degli altri quando muoiono. Ma non farlo mentre sono vivi.