Da quando, quasi 5 anni fa, iniziò la pandemia da COVID-19, un oggetto in particolare ha preso parte alla vita quotidiana di ognuno: la mascherina chirurgica. Un dispositivo medicale che si è reso fondamentale per contenere le particelle virali (e microbiche) all’interno delle persone infette e limitare così la diffusione del virus. Questo dispositivo, apparentemente semplice, contiene al suo interno una tecnologia di tutto rispetto che sfrutta uno tra i materiali più versatili che esistano: il tessuto non tessuto (tnt). Grazie a questo materiale le mascherine possono filtrare in uscita particelle delle dimensioni di virus e batteri con un’efficienza pari al 98% ed essere allo stesso tempo leggere, economiche e relativamente comode da indossare.

 

Questo è un traguardo notevole se si pensa che le particelle microbiche, ed in modo particolare i virus, hanno in media dimensioni dell’ordine dei nanometri (milionesimo di millimetro) ed il coronavirus, con misure comprese tra gli 80 e i 160 nm, è tra i più piccoli. Filtrare particelle così minuscole non è affatto semplice. Infatti, non basta avere un tessuto in grado di setacciare i microbi, serve anche che il tessuto sia altamente traspirante, altrimenti il respiro emesso uscirebbe dai lati della mascherina, vanificandone l’azione protettiva. Richiedere ad un tessuto una tale traspirabilità e allo stesso tempo una capacità filtrante nanometrica non è cosa da poco.

Ciò è reso possibile da un tnt di polipropilene (o poliestere) generato da una particolare tecnologia di filatura chiamata Meltblown (fusione soffiata) che, grazie ad una soffiatura delle fibre di polimero fuso su di un supporto rotante, permette di ottenere un tessuto con una trama molto fitta. Tuttavia, pensare di avere un tessuto con una dimensione dei pori nanometrica è impensabile, o almeno non senza accettare di rinunciare a gran parte della traspirabilità del tessuto stesso; ma questo, come già detto, vanificherebbe la capacità filtrante della mascherina. È solo per merito del materiale plastico di cui è composta la mascherina che si può risolvere il problema. Infatti, le fibre di polipropilene, pur avendo una trama di dimensioni maggiori rispetto alle particelle virali, possiedono una carica elettrostatica che attira ed adsorbe i microbi, impedendogli di raggiungere le vie respiratore di chi la indossa.

 

Tuttavia, il tnt di tipo Meltblown ha una scarsa resistenza meccanica che gli impedisce di essere impiegato singolarmente e perciò necessita di essere rinforzato da altri strati di tessuto. È qui che subentra una seconda tecnologia di filatura dei tnt plastici: la Spundbond. Questa tecnica consiste in una filatura su nastro seguita dalla fusione delle fibre a caldo (o con resina), permettendo di ottenere fibre di diametro maggiore e maglie meno fitte rispetto al Meltblown ma più robuste ed economiche. Questi due tipi di tnt, accoppiati con una struttura a sandwich (con al centro il tessuto filtrante Meltblown e ai lati gli Spundbond), danno luogo al prodotto finito che tutti noi abbiamo indossato almeno una volta.

 

L’unico vero inconveniente delle mascherine chirurgiche è che, per via della scarsa aderenza al volto, chi le indossa viene protetto dai microbi solo per il 20%. Ciò impedisce a questi dispositivi di essere classificati effettivamente come DPI (dispositivi di protezione individuali) e di garantire la sicurezza personale in contesti in cui diversi individui sono sprovvisti di mascherine.

 

A ricoprire questa funzione però esistono altri tipi di mascherine, chiamate appunto DPI, note a tutti per le sigle che le caratterizzano: FFP1, FFP2 ed FFP3. Questi DPI, utilizzati principalmente in ambito industriale per proteggere da fumi e polveri sono stati impiegati con successo in ambito medico, specialmente nei reparti di infettivologia. Le suddette mascherine, costruite in modo analogo a quelle chirurgiche, sono caratterizzate da una maggior aderenza al volto e da una rigidità superiore che nel complesso conferisce a questi dispositivi una maggiore capacità filtrante in entrata.

 

Più nello specifico esistono due tipologie di DPI: con o senza valvola. Le prime sono progettate per proteggere esclusivamente l’operatore (esattamente il contrario delle mascherine chirurgiche) e sono caratterizzate da una capacità filtrante verso l’esterno pari al 20% a prescindere dalla sigla (FFP…), mentre nei confronti dell’operatore hanno una capacità filtrante del 72% (FFP1), del 92% (FFP2) e del 98% (FFP3).

 

Le mascherine senza valvola, invece, hanno una capacità filtrante analoga sia verso l’esterno che verso l’interno pari al 72% per le FFP1, al 92% per le FFP2 e al 98% per le FFP3. Chiaramente a fronte di queste caratteristiche tecniche superiori si ha un maggior costo per unità che non rende l’utilizzo quotidiano di questi DPI accessibile a tutti.

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