La prima sensazione che si ha, dopo aver visto la mostra di Damien Hirst, è di non sapere più cos’è il tempo. Non sapere se si è fermato, se è tornato indietro oppure se è andato paurosamente avanti. Se è mai esistito.
È tutto in discussione, alla Galleria Borghese. A partire dall’oggetto stesso della mostra. Le opere esposte infatti arrivano dall’antica nave “Unbelievable“, ἄπιστος (apistos) il nome originale in greco antico, che naufragò per motivi ancora poco chiari sulle coste del Mediterraneo orientale. Il suo prezioso carico, la pregevole collezione del liberto Aulus Calidius Amotan, conosciuto come Cif Amotan II, era destinato a un tempio in Oriente, dedicato al Dio Sole. Eppure tutto questo non è mai avvenuto. Merito della fantasia, sregolata e provocatrice, di Damien Hirst che spiegava così, a Repubblica, il suo rapporto con il tempo: “Abbiamo bisogno del passato. Crediamo nel passato perché credere nel presente è più difficile, anche se ci tocca. L’idea che c’è dietro la serie di sculture e oggetti di ‘Treasures from the Wreck of the Unbelievable’ è proprio quella di rubare al passato per creare un nuovo presente, fondare l’illusione di una verità con una nuova mitologia”.
“Archaeology Now“, questo il nome della mostra di Damien Hirst curata da Anna Coliva e Mario Codognato sotto l’egida e il supporto di Prada. Sculture maestose ricoperte di cirripedi e coralli, piccoli manufatti, teschi, urne votive che mettono insieme un immaginario mitologico classico, egizio, orientale e sudamericano. C’è un Nettuno in lapislazzuli e agata bianca, completamente ricoperto di molluschi. Una Golden Monkeys che sembra uscita da un tempio. Due Lion Women da tempio ittita. Opere che si innestano a meraviglia nel suggestivo museo di Galleria Borghese, entrando in simbiosi, come nella Sala Egizia, o in contrasto, come per la serie Five Friends, naturale continuazione o spacco provocatorio. “Il museo non è una location – spiega la curatrice Anna Coliva – Il museo è protagonista. L’arte contemporanea è uno strumento per capire il luogo in cui siamo. La grande perizia di Damien Hirst si rispecchia perfettamente nella incredibile multiformità di tecniche e materiali che sono alla Borghese”.
Le vetrine in finto marmo, le didascalie romanzate, gli oggetti preziosi, tutto si confonde tra le sale del museo, tra Il ratto di Proserpina e Apollo e Dafne. “La mostra ci mette di fronte ad alcune problematiche difficili da evitare – scrive Ludovico Pratesi su Artribune – sulle quali è opportuno riflettere: l’evoluzione del gusto, i possibili limiti del rapporto tra antico e contemporaneo, la possibilità che un museo d’arte antica possa essere trasformato ipso facto nell’opera di un artista vivente in grado di confrontarsi ad armi pari con la storia dell’arte“. Eppure Damien Hirst è sicuro: “Non mi interessa il confronto. Il mondo in cui viviamo è molto diverso rispetto a quello dei maestri che sono alla Galleria Borghese – ha detto a Robinson – Oggi si è artisti in maniera differente. Come artista non credo nel genio, credo nella libertà di espressione. Tutti possono arrivare a diventare artisti”.
Le opere di Damien Hirst, in teoria, vengono dal passato ma sembrano riferirsi a un futuro dispotico. Con un presente confuso, illusorio, nei musei lo spettatore cerca rifugio in un passato cristallizzato, lontano, ma allo stesso tempo tranquillizzante. Che succede quando quel passato si scopre falso? Se quel passato è presente che parla di futuro? Si nasconde qui la scossa artistica della mostra, nelle domande senza risposta, nella sensazione di meraviglia che a tratti diventa paura, a volte sorriso e a volte occhi sgranati. Il tutto nello splendido scenario di Galleria Borghese di Roma. Per un viaggio nel tempo, senza coordinate.