Dopo quarantanove anni dalla sua morte, moltissimi, quasi tutti, sono ancora convinti che il movente del massacro di Pier Paolo Pasolini sia quello sessuale. Quello fu il primo depistaggio, messo in atto scientemente da chi all’epoca indagava e dagli stessi che furono i mandanti dell’omicidio. Il delitto del poeta, del più originale e limpido intellettuale italiano del Novecento, ebbe un movente politico. Pasolini sapeva. Pasolini stava cercando le prove. E qualcuna ne aveva anche trovata. Pierpaolo conosceva benissimo Pelosi, “Pino la Rana”. Si frequentavano anche se sporadicamente. Pier Paolo non aveva nessun bisogno di andare fino all’Idroscalo di Ostia, quella sera del 1 novembre, di portarci Pelosi per tentare un approccio sessuale. Pasolini fu portato all’Idroscalo perché gli tesero una trappola. Una trappola orchestrata da mesi. All’Idroscalo lo aspettava qualcuno per ucciderlo, con la promessa che gli fossero restituite alcune “pizze” del film “Salò e le 120 giornate di Sodoma”, rubate settimane prima a Cinecittà, insieme a spezzoni i altri film, per depistare, certo. Per nascondere la vera ragione di quel furto. Ricattare Pasolini.
All’Idroscalo, quella notte c’erano almeno quindici persone. E Pasolini fu picchiato con bastoni e spranghe, investito più volte da più di una macchina. Sono i risultati dei rilievi. Pasolini doveva essere ucciso.
Il poeta nei suoi ultimi anni di vita era diventato un giornalista d’inchiesta, probabilmente spinto dalla sua sete di verità che lo aveva sempre ispirato. Che veniva dalla sua indomita passione civile, la sua religiosità autentica. Pasolini stava scrivendo “Petrolio” un romanzo monumentale in cui riannodava i fili dei traffici legati al potere, all’Eni. Pasolini indagava su Piazza Fontana, sulle trame nere, sui fascisti di Ordine Nuovo e sui legami con i servizi segreti italiani e d’Oltreoceano. Sulla Dc e sul Vaticano. Pasolini era diventato troppo “scomodo”. Doveva essere eliminato. Se si vuole conoscere, approfondire questa verità, bisogna leggere i due libri di Simona Zecchi, “Massacro di un poeta” e “L’inchiesta spezzata di PierPaolo Pasolini”. Frutto di un lavoro ciclopico, fatto di interviste, ricerca e citazione di fonti, testimonianze che ci restituiscono il vero motivo per cui abbiamo perso una personalità così unica nel panorama della Cultura italiana e internazionale. Lo abbiamo perso perché ammazzato dagli stessi poteri sui quali Pier Paolo indagava. Gli stessi che additava, senza farne il nome, nei suoi editoriali sul Corriere della Sera. Per poi scoprire, dopo le sue indagini, che la verità era ancora più magmatica, intricata, spaventosa.
E dopo i depistaggi perpetrati per decenni dai servizi segreti, dai poteri occulti dello Stato, oggi c’è ancora chi pratica il depistaggio mediatico, rispolverando la pista sessuale come una “possibilità”. C’è ancora qualche giornalista o “anchorman” che cerca di inoculare il virus del dubbio, di trasformare, quella che è stata e sarà per sempre una vittima del Potere, in un colpevole, un uomo che non poteva resistere al suo “vizio”. E così ogni giorno, ad ogni ricorrenza, Pier Paolo viene ucciso di nuovo, come in una liturgia malvagia, ipocrita e colpevole.
Rimangono e rimarranno per sempre le sue opere cinematografiche, le sue poesie, i suoi romanzi di vera, autentica pietas per gli ultimi, i dimenticati delle periferie romane. Rimangono e rimarranno le sue lucide analisi, quasi visionarie per l’epoca, ma oggi così attuali. La sua figura, le sue parole, il suo esempio, ci illuminano nel buio della omologazione culturale, nelle tenebre della menzogna, ci guidano in questa nebbia di bugie e di disumano disinteresse per il prossimo, in cui siamo finiti.
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