L’angoscia del virus, lo stare in guardia contro la sua aggressività, il lavoro, gli appuntamenti del giorno, le telefonate agli amici e le chiacchiere con i figli. Una corsa continua tra mille impegni e per “My Baby Yuossef” invece non c’è stato un angolo nei nostri pensieri, come non c’è stato sulla terra. My Baby aveva sei mesi ed era nato con un destino senza posto in un posto senza futuro. Il gommone su cui viaggiava insieme alla madre di 18 anni ed altri migranti in una mattina di novembre, si è letteralmente sfondato in mezzo al mare. I migranti a bordo tutti in acqua, il piccolo, sfuggito dalle braccia della mamma, aggredito dal freddo delle onde, dalla troppa acqua ingerita, dal ritardo dei soccorsi. Muore poco dopo il loro arrivo. “My baby” così urla la madre ai soccorritori perché lo salvino. Ma non ce la fanno. Yuoseff Arriva in porto senza vita. Ed anche lì non c’è posto. Mancava una piccola bara bianca, ce n’era solo una per adulti.. Per My Baby solo pensieri svagati, nessuna preghiera. Ora riposa a Lampedusa.
Un pensiero per My Baby Yuoseff
Nelle stesse ore, nello stesso tratto di mare, un altro gommone si pianta tra le onde e va giù. A bordo un centinaio di migranti, oltre 70 di loro vengono travolti e annegano. Una tragedia immane che nelle nostre urgenze è ormai classificata come ordinaria. Una come tante. Non intacca le nostre vite né trova spazio di riflessione nelle nostre esistenze, piuttosto si impreca perché la chiusura dei locali alle 18 impedisce l’aperitivo. Altri 40 migranti vengono recuperati dalle motovedette della guardia costiera libica, quella che abbiamo formato noi italiani per gestire uomini e mezzi, ma non a mostrare umanità. I marinai libici li riportano bagnati, umiliati, offesi, all’inferno dei loro campi di concentramento, chiamati centri di accoglienza. Gli stessi da dove erano fuggiti poche ore prima. Fine della storia per quanto ci riguarda. Non abbiamo tempo per il loro destino.
Cosi scrisse John Donne
Dall’altra parte del mondo però, in case che poco hanno a che vedere con le nostre, si prega. Madri e padri ringraziano il dio in cui credono per il figlio salvato ed iniziano ad accumulare altri soldi per pagare altri trafficanti per un altro viaggio. Così la ruota dello sfruttamento, della violenza e delle ruberie continua ad alimentare la criminalità che campa sui più poveri del mondo. E alimenta l’odio. John Donne, poeta inglese del ‘600, in Devozioni per occasioni d’emergenza scrisse : «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te». My Baby con i suoi sei mesi meritava “devozioni d’emergenza”, un pensiero, un momento di silenzio nel nostro rumore.