Oggi, a Roma, è morto all’età di 91 anni Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti.
Per ricordare lui e la sua storia ecco su Il Nuovo Magazine un’intervista di sette anni fa, mai pubblicata prima, che l’autore aveva realizzato per un progetto con il Liceo Classico “Giuseppe Colasanti” di Civita Castellana.
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Nato a Roma nel 1928, da Giovanni e Lidia Ascoli, ultimo di tre fratelli. Sopravvissuto a quello che ormai è diventato il simbolo dell’orrore della Shoah: Auschwitz. Piero Terracina però rifiuta l’epiteto di eroe: “Eroe è colui che si ribella sapendo di dover essere torturato e di essere ucciso, io allora avevo quindici anni e a quell’età non si vuole morire, si resta aggrappati alla vita anche per vivere solo un giorno o qualche ora di più”. Ed è con la stessa forza e con lo stesso entusiasmo con cui ha lottato nel lager che Piero risponde alle mie domande. Una grande voglia di raccontare, di perpetuare il ricordo affinché diventi memoria. È da anni che gira le scuole d’Italia per parlare con i ragazzi. “Ai giovani dico sempre di portare rispetto agli altri, a qualsiasi etnia, religione, cultura. Comportarsi sempre in modo da non dover mai provare vergogna. Ragazzi non dimenticate. Cercate non perché è accaduto, sarebbe come trovare una giustificazione, ma impegnatevi per sapere come.”
Un’infanzia tranquilla quella di Piero Terracina, macchiata dall’introduzione delle leggi razziali nel 1938. A meno di dieci anni è costretto a lasciare la scuola e il 16 ottobre 1943 partono i rastrellamenti in massa. I Terracina erano stati avvisati dell’imminente pericolo e riescono a fuggire. Inizia così il loro vagare in città, cambiano casa e nascondigli. “Ci accolse un portiere di uno stabile, amico di papà. I nonni nel sottoscala, in un appartamento i miei genitori e mia sorella, io e miei fratelli eravamo nascosti nello scantinato”. La vita scorre tranquilla, i fratelli più grandi, con il padre e Piero stesso, per guadagnare qualche soldo, vendono per strada saponette, lamette da barba e filo da cucire. Sono passati 7 mesi dall’occupazione tedesca. Il 7 aprile 1944 è la Pasqua ebraica e Giovanni Terracina decide di festeggiare tutti insieme. Durante la cena, però, bussano alla porta due SS. “Era andata ad aprire mia sorella, tornò sconvolta. Ci diedero un biglietto con su scritto che avevamo 20 minuti per preparare le valigie e seguirli.” Non fu risparmiato neppure il nonno di 84 anni. Li avevano denunciati due giovani fascisti, ricompensati con la somma di 5mila lire a persona. Dopo la prigionia a Regina Coeli e nel campo italiano di Fossoli, a 5 km da Carpi, furono caricati su carri bestiame per andare ad Auschwitz. Un viaggio di sette giorni in condizioni disumane, l’acqua che finì la prima sera, i pianti dei neonati. Ma quello che più colpì Piero Terracina furono i civili alle stazioni: “La loro indifferenza era terribile. Tutti sapevano. Nessuno che avesse mosso un dito.”
Una volta arrivati furono separati tra maschi e femmine. “Fu l’ultima volta che vidi mia sorella e mia madre, ricordo ancora le lacrime sulle mie spalle mentre mi abbracciava, sapeva che non ci avrebbe più rivisto”. Piero e i suoi fratelli da una parte, il padre e il nonno dall’altra, nella fila di coloro che non avevano superato la selezione dell’arrivo e ed erano destinati ai forni crematori. “Se l’inferno esiste, Auschwitz è qualcosa di peggio. Eppure c’è chi nega tutto questo, chi dice che la Shoah non è mai esistita – continua Piero Terracina mentre indica il numero tatuato sulla pelle, A 5506 – Credo però che debba essere posta maggiore attenzione nel mondo dell’istruzione è l’ignoranza che ha causato queste teorie.”
Un’educazione e una sensibilizzazione che devono partire dalle scuole per arrivare ad ogni punto della nostra società, anche negli stadi, ad esempio. “Razzismo e antisemitismo sono presenti tra noi. Basta vedere quello che accade con cartelli, striscioni e grida. Evidentemente non si vuole intervenire, sarebbe sufficiente che la partita fosse interrotta e punire la squadra in qualche modo.”
Ma torniamo al racconto. Il suo lavoro nel campo di concentramento era quello di scavare dei canali per lo scarico delle acque. Supera ben otto selezioni mentre perde lo zio e i due fratelli. Il suo ricordo della detenzione è soprattutto di violenza e morte. Ma anche di amicizia. “L’amicizia era una necessità – racconta – perché da soli sarebbe stato tutto molto più difficile. Quando non ho più avuto al mio fianco i miei fratelli è stato normale stringere amicizia con qualcuno. Avere un amico non significava solo poter parlare, voleva dire anche protezione reciproca.” Purtroppo alcune amicizie sono durate poco, altre invece durano da oltre 70 anni è il caso di Nedo Fiano e Sami Modiano. Fratelli più che amici.
Le truppe sovietiche, intanto, erano sempre più vicine. Così la mattina del 27 gennaio 1945, quando Piero aprì la porta per prendere della neve da sciogliere, dato che l’acqua era finita da tempo, vide un soldato russo. Capì che erano venuti a liberarli. “Però non ci fu nessun attimo di gioia, eravamo stremati. Scene di festa vennero invece fatte apposta perché filmate dalle cineprese russe. Il gesto dell’esercito sovietico non va dimenticato: hanno liberato Auschwitz.” Venne portato in vari ospedali e si mise in contatto con l’ambasciatore italiano a Mosca. All’uscita dal campo di sterminio pesava 38 chili e aveva 17 anni.
Da quel momento iniziano le tappe del ritorno in Italia. “Due fatti ricordo con piacere: l’affetto reciproco con l’infermiera Lida Grinvaldi, ucraina. E poi una partita di calcio organizzata dai soldati russi. Fu il giorno del ritorno alla vita. La gioia provata in quella partita l’ho provata poche volte.” Tornato in Italia, con l’aiuto di qualche parente riesce ad ottenere una stanza e un posto di lavoro, e ricomincia a vivere.
C’è una sottile differenza tra ricordo e memoria. Il ricordo è qualcosa di soggettivo, che appartiene solamente all’individuo e scomparirà con la persona che lo conserva. Ma quando il ricordo diventa memoria traccia “un filo indelebile che lega saldamente il passato al presente e condiziona il futuro”. Diventa patrimonio delle nostre conoscenze ed entra a far parte del bagaglio di ciascuno di noi. “Se voi trasmettete queste conoscenze ai vostri figli possiamo sperare che quello che è accaduto non succederà più.”
“Possono accadere fatti terribili. Mi raccomando siate uomini, non perdete mai la dignità”. Con queste parole Giovanni Terracina salutò i figli per l’ultima volta. Ma in che modo non si perde mai la dignità? Ricordando. E molto spesso ricordare è sinonimo di conoscere, di sapere.