La protesta del latte in Sardegna, i gilet arancioni che portano a Roma la crisi dell’olivicoltura, la Ferrero che rischia di divorarsi territorio e piccoli produttori nella Tuscia. È un mondo in fibrillazione, quello dell’agricoltura e dell’allevamento. Che sembra statico, fermo, uguale da secoli, invece è in continua trasformazione.

 

Per capire cosa sta succedendo intorno a noi e, soprattutto, per avere nuovi di strumenti di interpretazione, abbiamo chiesto a Pietro Satta, dottore agronomo e forestale di Rignano Flaminio, di guidarci nella selva di proteste e possibili soluzioni, di prospettive positive e di rischi per il futuro. Con uno sguardo all’economia ovviamente, ma senza perdere di vista la dignità del lavoro e il rispetto del territorio.

 

Proviamo a spiegare cosa sta succedendo in Sardegna. Quali sono le motivazioni della protesta dei pastori sardi?

 

Innanzitutto il problema del prezzo del latte non riguarda solo la Sardegna ma tutta l’Italia e maggiormente il Lazio, la Sardegna e la provincia di Grosseto, aree di produzione del Pecorino Romano D.O.P. Purtroppo negli ultimi anni si è assistito ad un calo progressivo del prezzo del latte ovino dovuto alla politica dei grandi industriali caseari che hanno speculato sul duro lavoro dei pastori. I pastori sardi secondo il mio punto di vista devono protestare, perché con 60 centesimi di euro al litro si annienta la dignità di questi lavoratori che tutte le mattine si alzano all’alba per mungere il bestiame con enormi sacrifici, e che si ritrovano a non poter più sostenere le loro aziende, con spese sempre maggiori tra bollini, farmaci, foraggi ecc.

Bisogna precisare inoltre che molti industriali hanno trasferito le loro sedi di produzione dei prodotti caseari all’estero, con costi minori di manodopera e spesso andando anche contro i disciplinari di produzione delle D.O.P. come il Pecorino Romano D.O.P., in questo caso si può parlare di vera e propria frode nei confronti dei consumatori.

C’era bisogno di un gesto forte da parte di tutta la comunità dei pastori e in questi giorni abbiamo visto gettare a terra litri e litri di latte come segno del loro dissenso per un prezzo così basso, che definirei solo vergognoso. Molto spesso la gente vede solo l’ultima fase del prodotto, ovvero il prodotto finito distribuito dalla grande distribuzione (GDO) che molte volte divora il mercato con prezzi al ribasso, e si dimentica degli attori principali della filiera agroalimentare che sono gli agricoltori e gli allevatori.

 

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Le istituzioni cosa possono fare per risolvere la situazione?

 

In questi giorni le autorità politiche sono scese in campo a sostegno dei pastori sardi, ma adesso servono risposte, risposte serie che tutelino gli allevatori di ovini e che controllino soprattutto i grandi industriali del settore caseario, garantendo una soglia minima del prezzo del latte e controllando gli standard di produzione soprattutto dei prodotti D.O.P. che identificano l’unicità del nostro territorio e soprattutto la nostra cultura. Una mancata regolamentazione e l’inefficacia delle sanzioni in caso di sovrapproduzione hanno determinato un surplus di prodotto con conseguente crollo dei prezzi, penalizzando gli attori più deboli della filiera, ovvero gli allevatori. Su tutto questo le istituzioni dovrebbero vigilare meglio aumentando i controlli e le sanzioni a carico degli industriali, garantendo la qualità e l’autenticità del prodotto.

Sicuramente la strada non è facile ma è obbligo delle istituzioni prendersi carico di questo problema definendo un prezzo dignitoso. Personalmente se il prezzo del latte ovino non salirà credo che non comprerò più Pecorino Romano.

 

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La forma cooperativa, l’unione di piccoli e medi pastori, può essere un antidoto alla grande produzione?

 

Sono un po’ scettico sulla forma cooperativa, perché molto spesso proprio questa forma ha agevolato pochi potenti a discapito dei piccoli e medi agricoltori e/o allevatori. Sicuramente la forma cooperativa garantisce al piccolo produttore un prezzo fisso del prodotto, se sono garantiti i requisiti di qualità richiesti, e può essere utile se c’è una rete di interscambio di idee e soluzioni tra i vari associati. Purtroppo, il più delle volte si finisce ad una standardizzazione del prodotto e delle sue caratteristiche, come nel caso della nocciola, andando a limitare la crescita e l’innovazione di molte aziende.

 

In altri settori, come quello della nocciola e delle olive, funziona come formula?

 

A livello Regionale, e parlo del Lazio, esistono Organizzazioni di Produttori (OP) come per l’olio di oliva o la nocciola, esempio l’OP – PRODUTTORI NOCCIOLE MONTI CIMINI o EURONOCCIOLA, per citarne qualcuna, che comunque riescono a tutelare i loro associati, offrendo una maggiore forza commerciale e stabilità del prezzo di vendita del prodotto. Queste cooperative molto spesso sono realtà virtuose come l’Organizzazione dei Produttori Olivicoli Latium, che ricercano l’innovazione e l’efficienza della produzione utilizzando monitoraggi ambientali e fisiologici delle colture, con piattaforme digitali di interscambio dei dati acquisiti in diversi luoghi. Credo che ci sia ancora molta strada da percorrere per far sì che anche i piccoli e medi produttori dicano la loro in un mercato così feroce e globalizzato come oggi. Sono convinto che l’unica salvezza dei piccoli produttori sia garantire la più alta qualità del proprio prodotto, puntando anche alla sua esclusività data dal territorio, dalla varietà coltivata, dalle tecniche di produzione e trasformazione e dalle stesse tecniche di coltivazione.

 

Piantagione di giovani nocciole nella Tuscia

 

Visto che si parla di nocciole, cosa pensa del Progetto Nocciola Italia varato Ferrero? 

 

Dal mio punto di vista Il Progetto Italia ha come scopo una filiera 100% italiana con prodotti di qualità, garantendo una tracciabilità e rintracciabilità dei prodotti ed applicando una politica sostenibile delle produzioni. D’altro canto, però, esistono dei rischi alti di una standardizzazione genetica delle piante coltivate, garantendo determinate caratteristiche utili solo alle produzioni della Ferrero.

Questo porterebbe alla diminuzione delle varietà presenti in Italia e ad una omogenizzazione del prodotto, ad interesse esclusivo della multinazionale. Inoltre non so quanto questo possa giovare sul prezzo della nocciola per le piccole e medie imprese che spesso si trovano schiacciate da queste multinazionali che spesso fissano il prezzo a soglie molto basse. Se si riuscisse ad ottenere dei buoni accordi di filiera, con garanzie per i piccoli imprenditori, basate sulla qualità del loro prodotto, allora forse la costituzione del Progetto Nocciola Italia non favorirebbe solo la Ferrero ma tutto l’indotto delle piccole e medie imprese.

Tengo a precisare che nella nostra Regione si sta andando verso una coltura monospecifica, ovvero la corilicoltura, e non so fino a che punto questo possa giovare al nostro territorio e alla sua economia, in quanto, come gli economisti ben sanno, all’aumentare dell’offerta il prezzo diminuisce. Spero di sbagliarmi e mi auguro che la domanda del prodotto sia sempre maggiore compensando l’offerta prodotta, in modo da mantenere un prezzo sostenibile per gli agricoltori.

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