“Adattarsi” ed “arrendersi“ sono complici nel linguaggio, sia in chiave costruttiva che in chiave auto-sabotante.
Chiunque intenda arrendersi ad un nemico o ad una situazione problematica, lo fa avendo valutato dentro di sé la possibilità dell’eventuale, futuro adattamento.
Non di meno la conservazione della specie si è servita di questi due verbi per evitare il sacrificio della vita e prosperare in una nuova condizione apparentemente ostile.
A Covid19 noi ci siamo arresi e istituiamo comportamenti adattativi alla contingenza, mentre programmiamo la nostra vita futura “adattata” alla eventualità del peggio.
Sono certo che adesso, come me, tutti si rendano conto della indispensabilità della rete: in questa fase di isolamento fisico dal mondo, Internet ci consente di supplire alla distanza dagli altri permettendoci di comunicare tra noi, seppure nella bidimensionalità delle immagini e nella precarietà acustica delle voci e dei suoni sintetizzati digitalmente dalle nostre macchine casalinghe.
Chiediamo molto alla rete, oltre all’informazione in tempo reale, ci affidiamo ad essa per stare in contatto con le istituzioni, per rassicurare gli altri sulla nostra salute, per entrare in contato con la gestione dell’emergenza, per mitigare l’angoscia dell’apocalisse ma anche per erotizzarci, per fare acquisti e, infine, per lavorare.
Già da molto tempo alcune professioni avevano trovato non solo la possibilità ma addirittura il vantaggio nell’essere svolte da casa e, sull’abbrivio di queste, nell’emergenza pandemica, anche molte altre funzioni che generalmente avvenivano nell’ambito del contatto tra persone, si sono ritrovate ad essere svolte on-line, fuori dalla zona di conforto del contatto vis a vis.
Tra le più difficili da svolgere da casa propria, credo che l’insegnamento rappresenti l’emblema della necessità/capacità adattativa della società in questo particolarissimo momento.
Con iniziale entusiasmo, o almeno curiosità, i maestri ed i professori hanno aderito al piano di proteggere l’anno scolastico dei giovani, fornendo una versione telematica della lezione tradizionale, per trovarsi quasi da subito a doversi confrontare con difficoltà non solo tecniche.
Parlando con i miei colleghi e con molti altri insegnanti, mi sono trovato a stupirmi per una cosa che non avevo pensato:
Insegnare on-line è più faticoso che insegnare a scuola.
Mi sono chiesto allora se fosse un problema solo del lavoro didattico o se questa accresciuta fatica riguardasse anche altre attività svolte da casa. Sorprendentemente, tutti quelli chiamati a questa nuova modalità operativa, pur avendo inizialmente apprezzato l’agilità del lavoro in ciabatte, hanno risposto alla mia indagine fornendo, quasi unanimemente, lo stesso giudizio “A lavorare da casa si fa più culo”.
Allora ho indagato tra i terapeuti, tra gli impiegati, tra i dirigenti e tra gli istruttori di discipline corporee e operatori di terapie e tecniche posturali, tra gli insegnanti di musica, concedendomi talvolta, con le persone con le quali avevo più confidenza, anche domande sulla sessualità virtuale. Da tutti ho avuto la stessa risposta che, stretta in un tentativo di concetto, suona più o meno così:
Ogni relazione che abbia costruito i suoi rituali sul contatto diretto tra soggetti, trasferita on-line è ostacolata da una sorta di “attrito di distanza”. Questo consiste nell’impossibilità di supplire per intero alla mancanza del supporto del non-verbale in forme dialogiche in cui esso risulta essere, ovviamente, abituale portatore di meta-contenuti.
Cosa c’entra allora L’arrendersi e l’adattarsi?
Dobbiamo arrenderci ai limiti imposti dal virus alla nostra sopravvivenza, agire come animali fuori dal loro habitat per continuare ad esistere; ma l’adattamento alla rete come piattaforma privilegiata di ogni attività deve essere combattuto a mazzate.
Quando un domani un qualsiasi ministro o un sottosegretario, un costruttore di sex-toys o un genitore cazzone (spesso coincidono), verrà a dirci che è inutile avere un luogo di lavoro, quando noi tutti abbiamo dimostrato di essere efficienti senza muoverci da casa, dobbiamo rispondere che manco per il cazzo. Nessuno deve privare il Corpo della sua supremazia comunicativa, nessuno deve poter credere di sminuire il valore percettivo dei sensi nei confronti della esistenza dell’altro e dell’altrui desiderio.
E noi? Noi non dobbiamo arrenderci a Techné, quando essa pretende di governare il flusso delle cose che abbiamo da dire. Dobbiamo ri-pretendere la peripathesis del camminare tra i banchi, l’osservazione sapiente e diretta della postura del nostro interlocutore, della respirazione dei nostri studenti, della tensione negli alluci di un cantante che prenda un acuto, la risposta epidermica dell’amante alle nostre carezze.
Dobbiamo, in poche parole, proteggere il ritmo dei nostri dialoghi, prima che siano condannati a divenire autoritari quanto impotenti monologhi… dobbiamo…
Sono in molti a sostenere che, dopo il Corona, niente sarà uguale a prima; e potrebbe suonare bene, essere una bella prospettiva, al patto che dal passato noi si riesca a portare nel palmo della mano i semi sani del nostro mandato evolutivo che ci impone di restare Uomini, lasciando tra le cose vecchie, insieme alle mascherine e ai guanti di lattice, le spore tossiche di quello che, benevoli e faciloni, ci siamo ostinati a chiamare “progresso”.