Alcuni spettacoli non andrebbero raccontati. Non perché non lo meritino anzi, esattamente l’opposto: a parlarne si rischierebbe di sgualcirne la bellezza. Torna fra nove mesi di e con Maria Evelina Buffa e Maddalena Recino è una pièce preziosa e, come tale, ve ne racconteremo con massima cura.
Due donne, vestite di bianco, riflettono a voce alta sul senso della maternità e sul significato che nessuno può percepire fino in fondo della perdita di quello stesso senso per i loro figli morti. “Se l’ordine della vita si capovolge, che cosa accade?” Nessuno lo sa. Solo chi, di quell’ordine, è stato culla per nove mesi.
Uno spazio rivestito completamente di carta ha accolto gli spettatori del Teatro Di Documenti a Roma, che ha ospitato lo spettacolo fino allo scorso 11 dicembre: fogli bianchi in terra, un enorme fantoccio appeso al soffitto anch’esso bianco, quasi come un burattino di cartapesta senza volto. La scena, realizzata magistralmente da Lodovica Cantono Di Ceva, narra silenziosa la somma di ogni colore che codifichiamo come il bianco, metafora di un evocativo tutto invisibile agli occhi di molti.
In scena Evelina Nazzari e Maddalena Recino si muovono coccolate della sapiente regia di Angelo Libri e sfidano il pubblico guardandolo dritto negli occhi, cercando e allo stesso tempo ignorando un dialogo superfluo, perché non si può parlare di un simile stato delle cose se non sei dentro quelle cose: il processo irreversibile della perdita di un figlio.
Il tempo passa anche se sembra che non debba passare per nessuno. Il ciclo della vita viene spesso descritto in maniera poetica. Il coraggio di questo testo racconta di un istinto materno che nella maggioranza dei casi si considera innato. L’intelligente provocazione che ci offre il pezzo di Evelina Nazzari, all’anagrafe Maria Evelina Buffa, graffia questo comune sentire. Abbiamo nove mesi per abituarci ad un essere umano che uscirà dal nostro stesso corpo: quanto tempo occorre per affezionarsi ad esso? Non esiste una risposta standard ma se una madre sopravvive ad un figlio, solo lei è autorizzata a rispondere a chiunque le chieda come sta: “Torna fra nove mesi”.
Pezzo per pezzo le due meravigliose protagoniste in scena scompongono il fantoccio, l’enorme bambino appeso al nulla e, ogni volta che si stacca un frammento, rimangono appese tante minuscole sagome bianche. Non importa come esse non siano più nello spazio terreno, importa che fluttuino in un non spazio nuovamente e idealmente dentro il corpo delle madri, stavolta per sempre. Ogni porzione della grande sagoma contiene elementi scenici anch’essi completamente bianchi. La cura per i dettagli di questo spettacolo è affascinante anche grazie al lavoro di Francesco Crisafulli, consulente musicale e Paolo Orlandelli per le luci.
Torna fra nove mesi è una prova drammaturgica difficile perché attraversa le emozioni senza nessun pietismo o la ricerca di facile commozione. La durezza e la bellezza del tema proposto si svela lentamente nel testo e nei gesti delle attrici. Un poema contemporaneo racchiuso in poco più di un’ora.
Misurato e al tempo stesso provocatorio, eccellentemente interpretato, Torna fra nove mesi è uno spettacolo che merita un silenzioso rispetto “perché il dolore della perdita di un figlio è una bestia subdola e al tempo stesso feroce. Che non ti lascia tregua. Che ti segue come un’ombra soffocante, finché hai respiro”.